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CARCERI
22 Agosto 2024 - 13:53
RICCARDO PASTORE
Alla notizia che una giornalista voglia ascoltarli, i detenuti si mettono in fila. O forse, alla possibilità che una persona voglia sentirli, a prescindere. Direttrice e resposabile lasciano spazio e privacy. Stringo una mano, mi siedo a un tavolo. «Io sono Riccardo. Ho 70 anni e ho passato metà della mia vita in carcere. Forse di più. Posso offrirti un succo di frutta?»
Mi trovo al Polo Universitario del carcere e di fronte a me ho Riccardo Pastore. L’ultimo rimasto delle Brigate Rosse. Sta studiando giurisprudenza. Nel tempo libero gioca a scacchi e parla, parla un sacco con altri detenuti, mi dice. Il suo fine pena è per il 2035. «Ma io qui ci morirò».
Gianluca
Cede il posto a Gianluca, 56 anni. «Ho rigato dritto per tutta la vita. Fino al 2015 dove ho avuto una momentanea separazione da mia moglie». L’uomo va a vivere in un residence e cade in depressione. A casa, oltre alla donna che ama, c’è suo figlio di 17 anni. E’ solo. Anzi no. I suoi nuovi vicini si interessano a lui. Gli regalano della cocaina, per distrarsi, per anestetizzare quel dolore che lo porta a pensare di farla finita. Loro, i premurosi confinanti del suo nuovo squallido appartamento, sono pusher. Potranno dargliene ogni volta in cui lui la desidera. E quando finiscono i soldi per quel bianco analgesico, Gianluca sbaglia. Poi sbaglia ancora. Tanto lui da perdere non ha più nulla. Eccetto la libertà. Che ritroverà nel 2032. E intanto studia. Per laurearsi.
«Sono pentito. Mi hanno condannato per 6 reati, giuro ne ho commessi solo 4. Ma li accetto, non è questo che mi fa più male». Prende fiato. «Con la mia famiglia mi sono riappacificato e vengono a trovarmi, li sento» una bellissima notizia. L’uomo, altissimo, di colpo sembra rimpicciolire sulla sedia. E piange. «Mio figlio, come può essere orgoglioso di me? Questo pensiero mi uccide e mi fa sentire in colpa più dei miei reati. Vivo per lui, ho paura che possa dubitarne». Ci alziamo, gli chiedo di mettersi in posa. Lì, vicino alla porta della sua cella c’è un arcobaleno dipinto al muro. Gli chiedo un sorriso. Mi giro verso il salone. Detenuti e agenti intorno a noi hanno ascoltato in religioso silenzio. Qualcuno piange. Uno annuisce lentamente con la testa. Un altro ha gli occhi chiusi. Per qualche minuto, con il racconto di Gianluca, da qui dentro, dal padiglione del carcere, ci siamo usciti tutti, per ritrovarci in una stanza che è altrove, senza ruoli, divise, etichette. Solo Padri. Figli. Figlie.
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