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Il processo
19 Settembre 2024 - 09:20
Chiara Appendino «non si è limitata a ideare la proiezione della partita di calcio, ma ha dato impulso alle scelte riguardanti il luogo di svolgimento e l’ente deputato ad organizzare la manifestazione, senza preoccuparsi di valutare la sostenibilità in termini di sicurezza di tali scelte». Lo scrivono i giudici della Corte di Cassazione nelle motivazioni con cui, lo scorso 17 giugno, hanno disposto un nuovo processo di appello per la tragedia di piazza San Carlo. Quando, il 3 giugno 2017, morirono due persone e altre 1.672 rimasero ferite. Quasi tutti tifosi della Juventus in piazza per tifare davanti alla finale di Champions League con il Real.
La Corte d’Appello ha condannato l’allora sindaca di Torino a 18 mesi per disastro, omicidio e lesioni colposi. Appendino è colpevole anche per la Cassazione, che però chiede un nuovo processo e di ricalcolare della pena (riducendola). Perché i giudici di secondo grado di Torino, pur avendo prosciolto l'imputata dall'accusa di lesioni per dieci feriti, sarebbe incorsa in altre violazioni come «aver mancato negligentemente di adottare la “ordinanza antivetro”, circostanza che ricade nella fase organizzativa dell’evento, con innegabili conseguenze sulla sicurezza della manifestazione».

La Suprema corte dichiara “irrevocabile” la responsabilità penale dell’Appendino per tutti i capi di imputazione. In oltre 160 pagine di motivazioni afferma che «la prevedibilità dell'evento debba essere rapportata non alla causa primigenia dello spostamento della folla - nella specie, diffusione dello spray urticante da parte una banda di rapinatori - ma alla conseguenza generatasi in seguito all’azione dolosa dei rapinatori (panico collettivo)». In questo senso «si sono correttamente mossi i giudici di merito nella ricostruzione della vicenda, osservando come l'azione dolosa avesse costituito «solo l'innesco, come tale perfettamente fungibile e non caratterizzante» del decorso causale, determinando l'esito «di un evitabile e certamente prevedibile fenomeno di panico collettivo». La Cassazione aggiunge che sono «numerose le circostanze indicate dai giudici di merito suscettibili di rivelare la superficialità della preparazione della manifestazione e la sottovalutazione dei rischi a cui erano esposti gli spettatori in ragione della scarsità del tempo impiegato per l’organizzazione della proiezione» della finale di coppa.
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