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Il Borghese
04 Novembre 2024 - 06:30
I Reali di Spagna costretti a scappare, letteralmente, di fronte all’ira della folla che li bersaglia con fango e altri oggetti, mentre il premier Sanchez viene colpito con un bastone, alle spalle. Sono queste le immagini arrivate, nella giornata di domenica, dalla Spagna ferita dalla tragedia di Valencia, con oltre duecento morti, migliaia di dispersi.
Re Felipe di Spagna tra la folla (foto LaPresse)
Dolore e rabbia che riportano alla memoria, qui in Piemonte, quelle lacrime versate trent’anni fa, quando fiumi noti forse per i romanzi di Cesare Pavese, come il Belbo, ma anche il Tanaro e il Bormida, seminarono distruzione tra le province di Asti e Alessandria, mentre la pioggia flagellava anche il Torinese. Dopo quella notte fra il 5 il 6 novembre 1994 si contarono 60 morti e 2mila feriti, 10mila persone evacuate o rimaste senza casa, 25 miliardi di lire il conto totale dei danni.
I volumi della biblioteca "Cesare Pavese" di Santo Stefano Belbo devastata dall'alluvione del 1994 (foto LaPresse)
Ferite da cui abbiamo certo imparato a intervenire, con la macchina della Protezione Civile organizzata in maniera neppure - colpevolmente - immaginabile in quegli anni in cui bastava perdere o non vedere un fax, nella burocrazia delle Prefetture non ancora risolta, per ritardi dalle conseguenze catastrofiche. Abbiamo imparato a studiare e dare un nome ai fenomeni meteo, studiamo il cambiamento climatico, ma ancora non risolviamo questioni che i contadini del secolo scorso sapevano gestire: dalla manutenzione dei boschi alla pulizia dei fiumi, dalla cura del territorio che dà da vivere ma può anche uccidere.
In questi giorni, a cominciare dal convegno dei geologi alla Città Metropolitana nel pomeriggio del lunedì, si parlerà e scriverà molto, si lancerà qualche allarme. Mancherà, come al solito, un piano vero, pluriennale, con una dotazione economica vera, che non spetta agli esperti o ai tecnici trovare. Perché è vero che la Protezione Civile e le forze armate sono rapidissime negli interventi, ma quello è il dopo. È il “prima” che ci manca. Da trent’anni.
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