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CORSO LANZA
27 Gennaio 2025 - 08:10
L'edificio di corso Lanza 75
L’edificio di Flashback Habitat lo conoscono in tanti a Torino: è la sede di mostre artistiche e culturali. Ma quello che non sanno tutti è che per tanti anni questo posto è stato un brefotrofio «L’Isola che non c’è» è il nome affettuoso che gli ha dato Alessandro Bulgini, l’artista che ha creato l’opera che celebra il passato di questo edificio. L’Istituto per l’Infanzia abbandonata della Provincia di Torino in corso Lanza 85 ha accolto fino alla sua chiusura (1981) centinaia di orfani. L’edificio, prima, era una clinica, Villa Sanatrix, che dagli anni ‘30 agli anni ‘50 ospitava i facoltosi “della Torino bene”. Poi appunto, il sito diviene deputato ai neonati che venivano abbandonati dopo il parto o a quelli che venivano lasciati per strada appena nati. Bambini spesso nati da donne sole, frutto di un amore illegittimo, figli di genitori poveri che non potevano permettersi un’altra bocca da sfamare.
Decine di culle allineate, suore e nutrici a lavorarvi dentro. Anche uno scettico percepisce un’energia particolare, a camminare tra quelle mura. Una struttura che all’epoca vedeva 4 padiglioni e una casa custode, immersi in un bellissimo parco verde. Oggi quel posto è una cittadella della cultura. «Ma quando sono entrato qui per la prima volta, quando mi è stato detto cosa era questo posto, ho capito che mi era stato fatto un dono» spiega Bulgini, il “custode” delle storie che riguardano i “bambini sperduti” dell’ex brefotrofio.
Cesare Bellocchio ci ha scritto un libro: “Nascere senza venire alla luce”, pubblicato nel 2010 con il contributo della Provincia di Torino. «È lo sviluppo della mia tesi universitaria. L’idea di dedicare la tesi all’Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità, un tempo noto a tutti come Ipim, mi venne dagli stupefacenti racconti delle colleghe più anziane, quelle che avevano passato gli anni di gioventù a lavorare proprio nell’Ipim. Ero incredulo all’idea che le bambinaie facessero la stessa vita dei bimbi ricoverati: vivevano lì, dormivano in camerate, quando avevano il giorno libero dovevano rientrare alle 22, chi tardava trovava il cancello chiuso ed era costretta a scavalcare, e quelle che pigliavano marito dovevano lasciare l’Ipim perché c’era l’obbligo del nubilato. Ma i loro racconti erano pieni di allegria, e si capisce perché: avevano 20 anni o giù di lì, erano approdate nella grande città partendo da piccoli paesi sardi o veneti e, malgrado le restrizioni e il duro lavoro quotidiano, si godevano l’indipendenza dalle famiglie d’origine, amavano i bambini loro affidati e si divertivano un mondo, soprattutto quando disobbedivano e gliela facevano sotto il naso alle suore e al direttore. C’era la vita vera, quella dei bimbi che resistevano in attesa di una vita migliore».
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