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ARTE
22 Aprile 2025 - 17:45
Murales nel quartiere Campidoglio a Torino (fonte: Instagram/MAU)
Nel quartiere Campidoglio, a Torino, l’arte ha preso casa fuori dai musei. Non su invito, ma per iniziativa condivisa. Il Museo di Arte Urbana, conosciuto da tutti come MAU, è un progetto che ha trasformato le pareti degli edifici in opere pubbliche, accessibili, permanenti. Una raccolta visiva che si costruisce nel tempo e con il territorio, senza spettacolarizzazioni ma con una precisa volontà di confronto, memoria, e sguardo critico sul presente.
Domenica 27 aprile il MAU torna ad aprirsi con una visita guidata, organizzata in collaborazione con CulturalWay. L’appuntamento è alle 15.30, con partenza a piedi tra le vie del borgo. Non ci saranno corridoi né teche da osservare, ma strade e piazze che diventano parte integrante del percorso, mentre le opere affiorano da facciate, muri ciechi, e serrande.
Oltre 200 interventi firmati da più di 100 artisti compongono oggi il museo all’aperto. Non sono decorazioni. Molte di queste opere sono dichiarazioni nette, scomode, o semplicemente intime. "Canto Metropolitano" di Mercurio Lo Grasso è una delle più note: un omaggio al paesaggio urbano e alle sue tensioni. Le "Mosche" di Sergio Ragalzi disturbano lo sguardo e costringono a fare i conti con ciò che si preferirebbe ignorare. Mono Carrasco, con “Un altro mondo possibile”, riflette su discriminazioni e convivenza, immaginando una società meno chiusa, più solidale.
Accanto alle riflessioni civili, trovano spazio anche la memoria storica e le ferite del presente. Diego Testolin con la "Madonna di Kobane" affronta il tema del femminicidio. Masoudeh Miri racconta, attraverso ritratti di donne afghane, storie di dignità e silenziosa resistenza. E c’è anche il ricordo di Domenico Luciano, uccisa a soli 12 anni dai fascisti, ricordata da Mrfijodor con un murale che non chiede retorica, ma consapevolezza.
Il MAU è nato grazie alla disponibilità degli abitanti e alla partecipazione di artisti, commercianti, realtà locali. I muri non sono stati concessi per riempire spazi vuoti, ma per condividere un linguaggio. Non c’è intento decorativo, ma un processo culturale che interroga la città, e chi la vive.
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