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L'intervista esclusiva

"Aprire un ristorante in Italia? Una vera sfida": parola di Dalia, la chef che sceglie la sostanza alle scorciatoie

Il racconto di chi immagina un futuro diverso per la cucina, tra radici, comunità e nuove esperienze

Dalia Rivolta  a Masterchef /Fonte Sky

Dopo un reality show, c’è chi sceglie di concentrarsi subito sulla visibilità e sulla comunicazione. Dalia Rivolta ha seguito un’altra strada: ha costruito il suo percorso partendo dal basso, tra progetti locali, ascolto e cucina condivisa. Ha scelto di tornare alle origini, lontana dai riflettori, per costruire qualcosa di più intimo e personale, senza preconcetti.

Mentre molti ex concorrenti di MasterChef esplorano opportunità digitali e imprenditoriali, lei ha scelto di ripartire da casa. Con un fornellino, una bottiglia di vino e una forte attenzione all’ascolto. Per Dalia la cucina non è solo intrattenimento: è un gesto autentico, un modo per riconnettersi con la propria storia – anche quando ha il profumo deciso dell’acciuga. Come direbbe Rocco Papaleo: “Signò, da quando il pesce puzza?”. 

Nata a San Salvario, dopo esperienze tra Canada e Francia, oggi Dalia è tornata a vivere a Torino. Una città che, per lei, dà senso alle cose. Anche agli agnolotti col sugo d’arrosto mangiati sotto il sole di agosto. Oggi lavora a diversi progetti, anche in ambito digitale, sempre con una forte matrice sociale: dalla cucina in un hospice alle collaborazioni con comunità migranti, fino alla sperimentazione in gelateria. Non si tratta di stare lontano dalla ribalta, ma di dare priorità alla sostanza, costruendo connessioni reali attraverso il cibo.

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Chi è Dalia? E qual è il tuo legame con Torino?

“Sono nata a San Salvario e ho vissuto fino all’adolescenza. Torino per me è casa, un legame profondo. Ho fatto la mia esperienza all’estero, ma è stato proprio lì che ho capito quanto mi sentissi torinese. Tornare qui è stato naturale.”

Dove ti ha portato il mondo, da torinese “in girula”?
“Ho vissuto immersa in culture diverse. Ma Torino mi mancava sempre, nei suoi colori e sensazioni, anche brutte. È una città che cambia poco, ed è rassicurante. Ogni ritorno è un riappropriarsi di qualcosa.”

La prima cosa che fai quando torni?
“Mangio! Ho una lista mentale: agnolotti del plin, sugo d’arrosto, parmigiano. Non riesco a farne a meno. La pasta ripiena è parte di me.”

Dopo MasterChef, com’è cambiata la tua vita?
“Passare in TV ti dà una voce. Ho deciso di usarla per raccontare gli altri. Ho iniziato a cucinare in strada, ascoltando storie. È stato un modo per creare connessioni vere. Lavorare in cucina insegna ogni giorno qualcosa. Serve umiltà.”

Com’è fare ristorazione a Torino rispetto all’estero?
“Penso alla Francia, dove tutto è molto strutturato. In Italia ci sono grandi potenzialità, ma anche sfide: la burocrazia è complessa e trovare personale non è semplice. Servirebbe più stabilità.”

Hai mai pensato di aprire un ristorante tuo?
“No. Preferisco restare sul campo, cucinare e aiutare gli altri a realizzare i propri progetti. Aprire un locale richiede una grande struttura e comporta compromessi. Preferisco mantenere un approccio più libero e creativo.”

Lavorare in famiglia nella ristorazione: fortuna o sfida?
“Entrambe. Collaboro da dieci anni con la mia famiglia. Ho fatto due master per diventare direttrice Food & Beverage, e oggi contribuisco con nuove idee nella nostra attività, Nivà. Ci piace sperimentare anche gusti originali, come nocciola e colatura di alici.”

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Cos’è più difficile: gestire una gelateria o un ristorante?
“Tutto dipende dalla squadra. Se il gruppo funziona, puoi affrontare qualsiasi sfida. Ma trovare le persone giuste è sempre complesso.”

Con quale piatto faresti innamorare qualcuno di Torino?
“Un piatto che parli di contrasti: acciughe, plin con cima di rapa, burro nocciola e scorza di chinotto. Torino è una città di unione tra radici e contaminazioni. Siamo fortunati: i nostri prodotti raccontano storie.”

Cosa fai oggi e su cosa stai lavorando?
“Seguo diversi progetti che mi stanno a cuore. Lavoro con la Fondazione Faro, dove collaboro in cucina in hospice, e mi occupo delle risorse umane per Nivà, la nostra gelateria di famiglia. Porto avanti anche Fa Bene Kitchen, un progetto con migranti che ogni anno mi regala nuove storie e sapori. E poi sogno progetti digitali: qualcosa si sta muovendo, ma sono scaramantica… se arriveranno, lo saprete.”

Che consiglio daresti a chi sogna di fare il cuoco?
“Lo consiglio solo a chi sente una passione autentica, perché non basta saper cucinare bene. La cucina è un mondo che richiede abilità sensoriali, culturali e umane straordinarie. Serve ascolto, empatia, capacità di leggere le emozioni degli altri e anche le proprie. Bisogna conoscersi profondamente e lavorare sul proprio equilibrio, perché è facile farsi travolgere dalla pressione, dai ritmi, dalle aspettative. È un mestiere totalizzante, e per affrontarlo con lucidità e continuità serve consapevolezza, oltre alla tecnica.”

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E i food blogger? Possiamo fidarci?
“Dipende. Alcuni fanno un ottimo lavoro, raccontano il cibo con competenza e passione. Altri, invece, si muovono più sul piano promozionale, tra scambi e visibilità, e lì bisogna fare attenzione. Non è una critica, ma un invito a sviluppare uno sguardo più consapevole. Il rischio è lasciarsi guidare solo dalle mode o dal ‘mangio tanto, spendo poco’, che spesso non riflette la realtà del lavoro in cucina. Credo che tornare a cucinare a casa, anche in modo semplice, sia un modo per riappropriarsi di un rapporto autentico con il cibo.”

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