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Politica & Industria
11 Settembre 2025 - 05:50
Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, professore del Politecnico prestato alla politica, ha scelto la ribalta della Festa dell’Unità per puntare il dito contro il governo, reo di non avere una strategia industriale per l’automotive. Un’accusa facile, pronta a essere rilanciata con enfasi dal giornale degli Elkann-Agnelli, che ancora oggi pretende di dettare l’agenda dell’opinione pubblica cittadina. Eppure, se davvero si vuole parlare di responsabilità, bisognerebbe guardare più vicino a casa: a Palazzo Civico e a quel partito trasversale della Fiat che per decenni ha dettato la linea politica, economica e culturale della città.
A Torino, la grande orchestra del PTF – il Partito Trasversale della Fiat – non ha mai smesso di suonare. Nei banchi del Consiglio comunale come nelle stanze ovattate delle Fondazioni bancarie, negli uffici di Confindustria, nei vertici sindacali e nelle aule del Politecnico, il coro era unanime: sostenere le scelte della Fiat, qualunque esse fossero. Quando l’azienda decise di trasferire la sede legale in Olanda, non si levò alcuna voce critica. Quando scelse di delocalizzare la produzione e poi di fondersi con i francesi, nessuno tra i maggiorenti torinesi si oppose. Così la città dell’auto si è progressivamente trasformata nella città del deserto industriale.
Lorusso oggi si erge a fine politologo, ma finge di ignorare che la crisi dell’automotive non è il frutto dell’inerzia di un singolo governo, bensì il risultato di oltre vent’anni di complicità silenziosa. Chi amministrava Torino, e chi rappresentava le istituzioni economiche e culturali del territorio, ha preferito piegarsi alle logiche di un capitalismo familiare che ha privilegiato i salotti buoni e le rendite finanziarie, sacrificando sull’altare del profitto il patrimonio di competenze ingegneristiche e manifatturiere che aveva reso la città un’eccellenza internazionale.
Non si è trattato di scelte neutre, ma di un disegno consapevole. L’abbandono della ricerca, lo smantellamento progressivo degli stabilimenti, la vendita di marchi storici – da ultimo l’Iveco, finita in mani indiane – sono stati salutati da un imbarazzante silenzio. Un silenzio che gridava più di mille parole. Oggi quegli stessi attori, che hanno contribuito a desertificare il tessuto produttivo, scoprono improvvisamente la gravità della crisi e scaricano il barile sul governo di turno.
La retorica del sindaco è il paradosso di una città che ha smarrito la memoria della propria storia. Perché se è vero che l’esecutivo nazionale deve avere una politica industriale, è altrettanto vero che non si può chiedere a chi governa da pochi mesi di ricostruire in fretta una foresta laddove, con vent’anni di servile accondiscendenza, si è contribuito a fare del Piemonte un deserto.
È comodo denunciare l’assenza di strategie altrui quando si è ignorato per decenni il proprio ruolo di custodi della città. È facile accusare Roma quando qui, a Torino, non si è voluto disturbare il manovratore. È questo il nodo politico che Lorusso evita di affrontare: l’incapacità – o la mancanza di volontà – di difendere gli interessi della comunità torinese contro quelli di una dinastia industrial-finanziaria che ha saputo piegare la città ai propri desideri.
Oggi il sindaco avvia la campagna elettorale con proclami che sembrano nati più per conquistare applausi facili che per analizzare la realtà. Ma Torino non ha bisogno di nuove litanie, bensì di verità storiche. E la verità è che la “città dell’auto” non è stata abbandonata dal governo, ma soprattutto da chi, negli anni, ha occupato i posti di comando e ha preferito chinare il capo davanti al mito della Fiat.
La crisi dell’automotive torinese non è figlia del caso. È l’eredità amara di una città che ha scelto la sudditanza. Ed è ipocrisia pura, oggi, gridare contro Roma senza aver mai osato alzare la voce contro Corso Marconi o Corso Giovanni Agnelli.
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