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14 Aprile 2025 - 22:15
Un colpo di penna, 140 voti favorevoli e una manciata di dissidenti che, inascoltati, gridano al Parlamento ungherese: non in nostro nome. Il premier Viktor Orbán cala l’ennesimo asso e fa entrare in Costituzione il divieto al Pride, affondando un colpo diretto alla libertà di espressione e alla comunità LGBTQ+. Dietro la facciata di tutela dei minori, si consuma un’operazione chirurgica di repressione ideologica.
Il nuovo emendamento, approvato a larga maggioranza, non si limita a vietare la marcia dell’orgoglio queer. La strategia è più sottile, più perversa: si stabilisce il primato del “corretto sviluppo fisico, intellettuale e morale” dei bambini su ogni altro diritto, persino sulla libertà di riunione pacifica. Un escamotage, nemmeno troppo elegante, per giustificare la censura preventiva.
Ma non è tutto. La nuova Costituzione riformata stabilisce che il sesso è una caratteristica “biologica”, “maschile o femminile”: una cancellazione legale delle identità trans e intersessuali. Lo Stato non riconosce più chi non rientra nei suoi rigidi binari. Altro che difesa dell’infanzia: è una riscrittura dell’identità umana a colpi di ideologia.
Il testo approvato apre le porte all’uso del riconoscimento facciale durante le manifestazioni, con possibilità di sanzionare i partecipanti. Un dispositivo degno dei manuali di sorveglianza di massa, giustificato come “protezione del benessere dei bambini”. Ma la verità è un’altra: si legittima la repressione preventiva, si imbavaglia il dissenso, si scoraggia ogni forma di aggregazione libera.
Come se non bastasse, l’emendamento introduce nuove norme anche sul fronte della sovranità: cittadini ungheresi con doppia cittadinanza potranno essere privati della nazionalità se considerati una “minaccia” alla sicurazza nazionale. Una minaccia dai contorni vaghi, che lascia spazio a interpretazioni arbitrarie e pericolosamente punitive.
La stretta prosegue con la proroga dei poteri di emergenza: lo stato d’eccezione, attivato con la guerra in Ucraina, potrà essere mantenuto a tempo indeterminato con la sola approvazione dei due terzi del Parlamento. Una clausola che, nelle mani di una maggioranza solida e impermeabile come quella di Orbán, equivale a un lasciapassare permanente.
Si aggiungono anche norme più “popolari” – come la tutela dei pagamenti in contanti e pene detentive per microdosi di droga – per distrarre l’opinione pubblica e rassicurare i cittadini più conservatori. Ma la logica è sempre la stessa: consolidare il controllo, eliminare le zone grigie, cancellare ogni voce fuori dal coro.
E mentre a Budapest i manifestanti tentano di bloccare fisicamente l’ingresso in Parlamento, le organizzazioni per i diritti umani – come l’Hungarian Helsinki Committee – parlano senza mezzi termini di “una significativa escalation negli sforzi del governo per reprimere il dissenso”.
Il partito d’opposizione Momentum chiama alla mobilitazione: “Impediamo loro collettivamente di guidarci sulla strada di Putin e di privarci della nostra libertà”.
Un grido di battaglia che riecheggia tra le strade della capitale, mentre il governo mette le mani non solo sulle leggi, ma anche sulla narrazione pubblica.
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