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Armi di Stato, il piano Fincantieri: due stabilimenti per la produzione militare

Gli investitori americani puntano sulla difesa italiana mentre Roma valuta l’aumento della spesa militare tra prudenza e divisioni politiche

Armi di Stato, il piano Fincantieri: due stabilimenti per la produzione militare

Roma, primi giorni di giugno. Emissari di un grande fondo di investimento statunitense attivo nel settore della difesa sono nella Capitale per incontri istituzionali. Questo interesse riflette il cambiamento di scenario a livello globale, con il comparto della difesa destinato a diventare una delle aree di maggiore crescita economica e strategica nei prossimi anni.

Dopo l’ultimo vertice Nato, infatti, la spesa militare europea è considerata una vera «gallina dalle uova d’oro», con un’impennata prevista per il prossimo decennio. Un funzionario italiano del settore, che ha preferito l’anonimato, spiega: «Fino a poche settimane fa era difficile trovare banche disposte a finanziare progetti militari. Ora le offerte da investitori arrivano da sole». In questo contesto, due colossi italiani dello Stato si trovano al centro dell’attenzione: Leonardo e Fincantieri.

Fincantieri, leader mondiale nella cantieristica navale, punta a rafforzare la sua divisione militare, che attualmente rappresenta il 30% del fatturato complessivo. Il gruppo intende dedicare completamente due stabilimenti, a Castellammare di Stabia e Palermo, alla costruzione di mezzi navali militari come i pattugliatori. Solo la scorsa settimana, la Marina italiana ha confermato un ordine da 700 milioni di euro per due nuovi pattugliatori, che sostituiranno quelli ceduti all’Indonesia. Secondo fonti di settore riportate dal Wall Street Journal, Fincantieri è in grado di costruire fregate in un terzo del tempo rispetto ai concorrenti americani, un vantaggio competitivo significativo in questo mercato.

Sul fronte politico, il governo Meloni si muove con prudenza sul tema della spesa militare, in un Paese che registra il più basso consenso pubblico verso aumenti di questo tipo. A differenza di altri stati europei, l’Italia ha deciso di rinviare al 2027 l’incremento previsto del budget militare per rispettare gli impegni con la Nato, mantenendo aperto il dibattito all’interno della maggioranza.

Matteo Salvini ha inizialmente definito «insostenibile» l’aumento della spesa militare, ma ha successivamente affermato che, con «buon senso e nel tempo», raggiungere l’obiettivo del 5% del Pil entro il 2035 è «realizzabile». Il leader leghista ha poi precisato che, qualora si aumenti il budget, la spesa dovrebbe andare prioritariamente all’industria nazionale, una posizione che rispecchia le preoccupazioni di molti nel governo.

Diversa è la posizione del ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, che in un recente forum ha sottolineato come la difesa debba essere considerata un «bene comune europeo» e ha auspicato lo sviluppo di progetti di difesa congiunti tra Paesi membri, per evitare sprechi e duplicazioni. Per ora, tuttavia, l’Unione Europea ha destinato solo una parte limitata delle risorse del piano “Rearm Europe” a iniziative comuni, lasciando gli Stati membri agire per conto proprio.

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