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LA STORIA
16 Settembre 2023 - 06:30
Millecinquecento dinari a testa, «prendere o lasciare». Un’occasione unica a un prezzo che al cambio, sulla sponda opposta del Mediterraneo, sarebbe di circa 500 euro. Quella che Baj e Mohamed, 23 e 15 anni, non si sono lasciati sfuggire a Sfax per prendere una di quelle “barche di ferro” a cui danno la caccia le vedette dalla guardia costiera di Tunisi. Specie dopo l’odissea che hanno vissuto nel loro villaggio dalla suburra di Bamako attraverso il Sahara e l’Algeria. Un anno.
«Nel mio Paese c’è grande sofferenza e ho deciso di vivere la mia vita qui da voi» rivela il giovane, sorridendo al fratellino più giovane che si distrae con le cuffiette e un po’ di musica sullo smartphone. Uno strumento di comunicazione indispensabile, specie alla fine di un viaggio che somiglia alla più cinica delle lotterie. In cui chi ne possiede uno alla partenza, spesso, lo smarrisce nella sabbia del deserto o se lo vede sottrarre prima ancora di rischiare di perderlo nell’acqua prima dell’arrivo. Un telefono con cui annunciare a madri, spesso disperate e senza più speranza, che sono riusciti ad «attraversare il mare» in qualche modo. «Siamo vivi». Questa è la prima frase che hanno pronunciato, quasi esultando, una volta in salvo sulle coste della Sicilia.
«Ci abbiamo messo un anno ad arrivare in Italia e nove mesi li abbiamo passati in Algeria dove ci sono più possibilità che in Tunisia. Da lì siamo partiti con la “barca di ferro” e il capitano che la comandava ci ha portato a Lampedusa in ventiquattro ore. Ho avuto paura, non posso negarlo, ma per fortuna non è morto nessuno durante la traversata». Attorno a lui si fa il vuoto in un attimo, forse, stanno annunciando la distribuzione dei pasti di metà giornata dopo l’arrivo di un’altra sessantina di rifugiati.
«C’è praticamente tutta l’Africa, qui, adesso» dicono, chiaro e tondo, altri ospiti del centro di via Traves che oltre al francese parlano l’arabo. Ora sono loro, visibilmente, in minoranza, ospiti da più tempo al vecchio macello delle Vallette. «Noi arriviamo da Gambia e Burkina Faso» aggiungono Dibia e Gyasi, occupati a commentare le notizie che leggono su Internet. Dell’incidente ai due autisti non sanno nulla, lo apprendono e una smorfia di rammarico scaccia il buon umore. «Qui in Italia ci hanno trattato tutti bene fin dal primo giorno. Non come in Tunisia. Per questo siamo preoccupati di quello che leggiamo. Chi ha la pelle nera come noi, lì, non pensa ad che a nascondersi finché non riesce a fuggire verso l’Europa».
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