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il colloquio
26 Settembre 2024 - 22:30
La notizia della sparatoria con le Brigate rosse che aveva coinvolto il padre, poi morto in ospedale giorni dopo, Bruno D’Alfonso l’apprese accendendo la tv. Era il 5 giugno 1975. «Avevo dieci anni. Io, mia madre e le mie sorelle avevamo appena pranzato. Stavamo guardando il telegiornale e siamo rimasti impietriti, fu uno shock». E c’era ovviamente anche lui, oggi 60enne, in aula a Torino in occasione dell’udienza preliminare per la sparatoria alla Cascina Spiotta, dove oltre a suo padre, l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, era morta anche Mara Cagol, moglie del fondatore delle Br, Renato Curcio.
I fatti di Cascina Spiotta sono infatti tornati alla ribalta in tribunale, a 49 anni di distanza, con imputati quattro ex brigatisti. «Sono felice per il fatto che gli sforzi profusi negli ultimi anni abbiano prodotto una rivalutazione della vicenda, che permette di dare dignità alla memoria di mio padre», ha affermato Bruno D'Alfonso, carabiniere in congedo (il suo ultimo grado è stato luogotenente) che a dicembre 2021 aveva presentato un esposto alla Dda di Torino chiedendo la riapertura del caso. Ora intende costituirsi parte civile.
Dignità, e giustizia per il padre ammazzato dai brigatisti. Questo chiede Bruno D’Alfonso, difeso dall’avvocato Sergio Favretto, dopo quasi 50 anni. «In questi anni sono andato alla ricerca della verità, una verità - afferma - che è sempre rimasta offuscata visto che mancavano elementi importantissimi. Ancora oggi non so chi materialmente ha ucciso mio padre. Ho promesso a me stesso che avrei fatto tutto il possibile per restituire dignità a mio padre. Che uomo era? Lo ricordo come una persona amante della famiglia, quando non lavorava stava sempre con noi, e con me in particolare visto che sono l’unico figlio maschio della famiglia. Mi portava sempre con lui». e alla domanda se verrà fatta giustizia per Giovanni D’Alfonso, il figlio risponde così: «Credo proprio di sì, e siamo sulla buona strada».
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