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Il reportage

L’orrore tra i capannoni, baracche e materassi nella casa degli invisibili - IL VIDEO

Dopo i blitz della polizia i disperati si sono ripresi le fabbriche abbandonate alle spalle di corso Dante

Murate, sigillate. Apparentemente inespugnabili. Si presentano così, a una prima occhiata furtiva, le fabbriche abbandonate fra la ferrovia e il cavalcavia di corso Dante. Lì, fra le vie Egeo e Montefeltro, dove i capannoni vuoti sono stati riempiti per anni da senzatetto in cerca di un riparo dal sole o dalla pioggia. “Cittadelle fantasma” dove succedeva di tutto: l’ex Osi-Ghia e il vecchio Rock City, prima discoteca e poi palestra, sono stati più volte al centro delle cronache. Anche per rapimenti e maltrattamenti. Ma l’intervento della proprietà, che dopo l’ennesimo blitz delle forze dell’ordine aveva murato tutto, sembrava davvero aver risolto il problema legato alle occupazioni abusive. Sembrava, appunto.

Nuovi rifugi

La realtà è un’altra. E ve l’abbiamo documentata facendo un rapido giro tra quegli immensi capannoni di fortuna che nascondono più di un’insidia. Se gli ingressi principali sono chiusi e murati, lo stesso non si può dire per le varie entrate (e quindi uscite) secondarie. All’Osi-ghia, per esempio, si passa da un pertugio laterale vicino alla ferrovia. Dove, brutti ceffi a parte, non si vede anima viva. A mezzogiorno è calma piatta. Un ragazzo del co-working di fronte ci dice «escono tutti presto, non li vede mai nessuno». E la conferma arriva dal braciere spento, ma ancora tiepido, che serve a scaldarsi e a cucinare in un’altra ala della grande fabbrica che ha legato il suo nome alla storia del design automobilistico.

La drammatica situazione all'interno dell'ex Osi Ghia

Dentro il rudere

Si passa accovacciandosi, ruotando la testa, con il mento schiacciato sulla spalla. Ma anche, semplicemente, spingendo un cancello laterale. Dentro rifiuti in quantità industriale e persino vestiti stesi. Una porta conduce, poi, al rifugio di un uomo che garbatamente ci chiede una sigaretta. Ma qui gli estranei (e peggio i giornalisti) non piacciono molto. Così dopo un “no” come risposta conviene alzare i tacchi e cercare altri lidi. Da un punto all’altro di questo immenso mondo, si scorgono poi ambienti e frequentazioni totalmente opposte.

Uno dei nuovi ingressi alla fabbrica

Da un lato stanze vuote con bottiglie di birra, scritte sui muri, siringhe. Dall’altro una scala che conduce al piano di sopra, agli ex uffici diventati monolocali, luoghi (abbastanza) sicuri per addormentarsi lasciandosi cullare dalle pagine di qualche rivista di cui sono state tappezzate le pareti. E poi ancora letti di fortuna, materassi, ripari costruiti tra immense stanze vuote con assi di legno e teli che, in alcuni casi, invitano i curiosi ad andarsene. Un totale di 45 mila metri quadri di area post-industriale abbandonati da circa 40 anni e trasformati in una cittadella degli orrori.

La metamorfosi

Dicevano che questo gigante di cemento sarebbe rinato. Che il cuneo di 52mila metri quadri che da corso Dante si conficca nei binari della ferrovia che scorrono intorno sarebbe diventato l’esempio di ciò che Torino avrebbe dovuto fare con i monumenti del suo passato industriale: una vecchia fabbrica “trasformata”, gli spazi riutilizzati per farne un eco-campus che rappresentasse anche simbolicamente il passaggio da città operaia a città della conoscenza. Ma la metamorfosi, annunciata nel 2012, non c’è stata. Qui accanto alla ferrovia, in via Agostino da Montefeltro, resiste quello che è a tutti gli effetti l’hotel per disperati più grande della città. Con un continuo via vai di persone a tutte le ore del giorno e della notte.

Un braciere di fortuna nella vecchia fabbrica

Sbandati, clandestini ma anche tossici e stupratori. La puzza di urina che dà il benvenuto al visitatore viene meno man mano che ci si avvicina all’accampamento, giù in fondo: una casetta fatta di legno, ondulati di plastica e teli di nylon, catene per stendere il bucato, una friggitrice per cuocere, scarpe appese ai fili tesi sotto il tetto, come fanno le gang sudamericane per segnare il territorio. La vita qui dentro si può soltanto immaginare.

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