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Parigi valeva una messa

Torino (foto Depositphotos)

Torino (foto Depositphotos)

I giorni ricominciano pian piano ad allungarsi anche se hanno sempre 24 ore. Cambia solo la luce. Penso a quando l’uomo intendeva per “giornata” quella parte del giorno in cui la luce gli consentiva di lavorare, cacciare, spostarsi. Al buio cercava di sopravvivere, protetto (ma solo da un milione d’anni in qua) da un fuoco di cui aveva fatto a meno nei precedenti tre milioni d’anni, prima di domarlo. Fino a metà 900, in certe campagne italiane, l’orario di lavoro dei braccianti era “da luce a luce” e la paga era una pagnotta. Le mondine calavano a migliaia dal veneto per stare dall’alba al tramonto con le gambe a mollo nelle risaie, fra le zanzare. Mangiare poco, dormire tutte insieme in afosi solai e, a fine monda, la paga: un sacco di riso, che molte portavano a casa in spalla, ritornandovi a piedi. Questa non è preistoria, è vita delle nostre bisnonne. Ci pensavo mentre guidavo, e la sera torinese mi esibiva alpi nere e incendi di nuvole oltre i tetti. Avevo in corpo un buon “kebab”, piatto berbero di carne allo spiedo e verdure, gustato per 5 euro alla tavola comune d’una bettola araba di San Salvario. Servito da un oste nordafricano premuroso nonostante l’ora (quasi le tre). Come nelle piole d’una volta, o nelle latterie, dove ti facevano l’uovo al paletto a qualsiasi ora. Unico neo la Coca (niente alcolici lì, lo vieta Allah), però un euro a lattina, non tre come nei bar. Pensavo a questo lato positivo della nuova Torino multietnica, e mi veniva in mente che nella belle époque la chiamavano “la piccola Parigi”. La Parigi laica e multietnica d’oggi, che vieta croci e veli, non vale più una messa. Lassù la religione è questione privata. Facciamolo anche noi.

collino@cronacaqui.it
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