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L'INTERVISTA DELLA SETTIMANA

Enrico Pellegrini: «Da Torino a New York per amore (e soldi), ma come scrittore mi sento italiano»

Il nuovo libro "Infinito", la delicata storia di un padre che lotta per la figlia e per definire la propria identità: «Ho imparato la lezione di Calvino»

Enrico Pellegrini: «Da Torino a New York per amore (e soldi), ma come scrittore mi sento italiano»

Il fatto è che uno ci prova anche a evitare la domanda che gli scrittori non amano, ossia «quanto c’è di autobiografico», però in questo caso era la scheda della casa editrice a buttare il sasso nello stagno e per di più la piccola Penelope, figlia del protagonista, è talmente meravigliosa che si sceglie una specie di via di mezzo, ossia «è una persona cui tieni, vero?». Ma la risposta spiazza: «L’unica cosa veramente autobiografica è che mio padre è stato un attore a luci rosse». Ride. «Ma no, scherzo». Peccato, perché un passato a luci rosse per il grande pittore torinese Max Pellegrini, «l’artista solitario» sarebbe stata davvero una notizia.

È un personaggio suo malgrado Enrico Pellegrini, partito da Torino dove è nato nel 1971 e approdato a New York dopo il liceo al D’Azeglio, la laurea in legge e «una offerta che non potevo rifiutare». E nella Grande Mela oggi vive con la famiglia e lavora come avvocato, ma senza dimenticare la scrittura: quattro romanzi, il primo “Cuore di panna” a 19 anni, il secondo “La negligenza” che vince anche il Premio Campiello, l’ultimo è “Infinito” (La nave di Teseo, 19 euro).

Partiamo dalla parte più scontata, com’è essere un italiano a New York? Scelta di vita professionale, o per seguire l’attività artistica di tuo padre (Enrico chiede di darci del tu, rigorosamente, soprattutto dopo una serie di battute sul mondo editoriale, «questo devi metterlo nell’intervista», ndr)?
«Il mio rapporto con New York è come un matrimonio. C’è una cosa che ripeto spesso, forse perché è vero. Jackie Kennedy diceva che ci si sposa tre volte: la prima per amore, la seconda per soldi, la terza per non restare soli. Per me è stato così, solo a fattori invertiti: sono arrivato la prima volta qui per denaro, per quella offerta che non si può rifiutare, la seconda per amore perché mia moglie (Katrina Pavlos, produttrice cinematografica, ndr) voleva vivere qui. La terza perché ho tre figli e vivere altrove vorrebbe dire stravolgere la loro esistenza».


Abbiamo stabilito che tuo padre non ha mai fatto film a luci rosse, ma c’è qualcosa che ha ispirato il padre del protagonista? Un «padre straordinario»?
«Sai, forse c’è qualcosa nella fragilità della sua persona, la semisordità di cui soffre da quando era bambino, che ha sempre irradiato il suo rapporto con me e con la sua arte e ha fatto sì che in certi momenti io fossi un po’ il padre e lui il figlio».

Il terzo romanzo, “Ai nostri desideri”, era stato scritto direttamente in inglese. Ti senti più uno scrittore italiano o americano? Com’è scrivere in una lingua diversa dalla propria o addirittura auto-tradursi?
«Ho scelto di essere un avvocato americano, ma come scrittore, se mi è consentita questa scelta, mi reputo italiano. D’altra parte, almeno il venti per cento del mio lavoro riguarda l’Italia e l’Europa, quindi per molti mesi faccio base qui, a Torino. Sì il romanzo precedente l’ho scritto in inglese, questo invece ho fatto una sorta di “pasticcio”, scrivendo un po’ in italiano e un po’ in inglese, mescolando la tecnica della sceneggiatura e quella narrativa»

Il padre del protagonista, immigrato, parla al figlio in inglese e ripete la frase in italiano, ma vuole che parli inglese. Il protagonista, Chris, invece, cerca di insegnare l’italiano alla figlia.
«Fa con la figlia quello che il padre faceva con lui, cerca di trasmettere qualcosa. Il mio protagonista è anche una persona in cerca di una sua identità. Anche una identità linguistica. La lingua, l’italiano in questo caso, diventa non solo elemento di identità ma anche uno strumento di sopravvivenza, sopravvivenza nel rapporto tra genitore espatriato e figlio, o figlia. È un po’ il mio tema al Festival di letteratura italiana cui devo partecipare qui a New York Io mi sento alle volte come Mastro Don Gesualdo - non più accettato dal popolo e mai lo sarà dall’aristocrazia - quando il mio editor inglese mi dice che non so ancora l’inglese, mentre quello italiano mi dice che l’italiano non lo so più. E questa forma di fragilità, di crisi, può anche essere una opportunità».

Interessante la definizione di “pasticcio” per il tuo romanzo. Tu ami molto le mediazioni, i filtri, mi pare di capire leggendo il libro e sentendo anche le tue risposte.
«Non so dargli una definizione, perché di certo è “drama”, è difficile definirlo “commedia”. Mi piace pensare che sia ispirato dall’amore, questo sì, che possa dare un messaggio di speranza. Ho imparato molti anni fa dalle lezioni di Gianni Vattimo sullo scopo dell’arte: secondo alcuni è denuncia, secondo altri è la verità storica... Io faccio parte di quella categoria che ritiene che la scrittura e l’arte debbano anche tirare su di morale, Calvino insegnava che l’arte è la visione indiretta della realtà, nella sua lezione sulla leggerezza. Forse posso dire che il mio è un perfetto romanzo post post moderno. Perché c’è chi dice che il post modernismo è finito con l’11 settembre e l’attentato alle Twin Towers, quando la realtà ha superato l’immaginazione. Oggi quindi, siamo nel post post modernismo. Io credo che l’arte debba avere la capacità di essere portatrice di speranza»

LA TRAMA

Chris fa l’attore, lo definiscono «il nuovo Leonardo DiCaprio», ma si sente la persona «più disperata al mondo». Il suo matrimonio è finito e lui conduce un’aspra battaglia legale per la custodia della figlia Penelope, di tre anni. Per avere la possibilità di passare del tempo con lei, va a prenderla a scuola munito di una autorizzazione certificata da un notaio. Quando poi, però, l’insegnante si accorge che il notaio è lui stesso (ha preso l’abilitazione apposta), gli manda la polizia. Qualcuno invece manda delle escort nella sua lussuosa townhouse all’angolo di Park Avenue, per incastrarlo in tribunale. Insomma, il dramma si traveste davvero da commedia. Paloma, invece, canta in un locale sognando la grande occasione, ma è corteggiata da un rampante avvocato che, lei non lo sa, è il legale della ex moglie di Chris (ed è quello che ha mandato le escort a casa del malcapitato). Grazie a Penelope le loro vite si intrecceranno, in una storia piena di ilarità e di commozione, tra l’amico fobico di Chris, il ricordo del padre attore di film porno, l’operato di un misterioso mediatore, il meraviglioso signor Scruci, che fa finire le relazioni sbagliate e non ritiene etico lavorare per mettere insieme Chris e Paloma, poi l’anziano scultore ribelle per vocazione che ospita Paloma nel suo loft quando viene sfrattata. Un romanzo che invita a credere nei sogni. “Infinito” (La nave di Teseo, 19 euro) di Enrico Pellegrini.

Segui comunque il mondo culturale italiano, che differenze noti con quello anglosassone?
«Certe volte fare amicizia con un altro scrittore è più facile a New York che non con un italiano. Spesso gli italiani si guardano in cagnesco. La competizione è giusta, la scrittura è sfida, ma non è bello quando si pongono dei confini».

Non hai la sensazione che sia più provinciale, forse? Che magari a New York si sia più disponibili, pur nella competizione feroce, a riconoscere i meriti altrui.
«No, provinciale no. È una questione di educazione, di tradizione: per il mondo europeo e italiano lo scrittore è una figura più solitaria, egotistica. Negli Stati Uniti, per la mia esperienza l’istinto è più quello dell’animale da branco. Lo scrittore italiano difende il suo territorio, quello americano è un animale che crede nel branco per difendere il suo territorio».

Nessuna nostalgia di Torino, guardando magari Central Park?
«No, Torino non mi manca, perché Torino c’è sempre. Come dicevo, ho molto lavoro anche in Europa e dunque sono spesso a Torino, dove ancora vivono mio padre e mia madre».

INFINITO

Enrico Pellegrini

La nave di Teseo

19 euro

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