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Il colloquio
07 Agosto 2024 - 07:20
Ogni giorno finisce di lavorare e va al cimitero di Vercelli. Ogni giorno va a trovare suo figlio Kevin, ucciso da un treno a 22 anni. E ogni giorno, attraverso i social, lancia appelli per chiedere giustizia per lui e per gli altri quattro operai che hanno perso la vita: «Eppure è sceso il silenzio sulla strage di Brandizzo - stringe i pugni Massimo Laganà - È un silenzio troppo grande, che mi fa paura e mi uccide ogni giorno. C’è qualcosa che non quadra, cosa c’è ancora da capire e indagare?».
Si aspettava che l’inchiesta fosse più rapida?
«Sì, soprattutto dopo che ho trovato il video girato da Kevin appena prima dello schianto. Si sente Antonio Massa, il tecnico di Rfi, dire “Se vi dico treno, andate da quella parte”. Cos’altro c’è da indagare? Meno male che mio figlio ha salvato quella diretta Instagram, è come se avesse voluto fare giustizia per sé e per i suoi colleghi».
Quanto le ha fatto male vedere quelle immagini?
«Per me, dal 31 agosto, ogni giorno è come il primo giorno. Quello non è stato un incidente sul lavoro: io faccio il muratore e so che un errore umano può capitare. Ma un treno che ti viene addosso non lo è. Non mi sarei mai aspettato che mandassero mio figlio e gli altri operai a morire sui binari. Nonostante quella ragazza (la capostazione Vincenza Repaci, ndr) avesse detto tre volte di non andare. E allora perché sono andati lo stesso?».
Lei è riuscito a dare una risposta a quella domanda?
«Penso che ci sia un sistema marcio e lo dimostra il fatto che poteva capitare altre volte. Volevano iniziare i lavori prima e hanno ucciso quei ragazzi. Per questo io, la mia famiglia e i parenti delle altre vittime chiediamo giustizia. Non mi fermerò finché qualcuno non avrà pagato per quello che è successo. A costo di incatenarmi al tribunale di Ivrea».
Adesso Rfi sta valutando di proporvi un risarcimento.
«Dei soldi non mi frega niente, qualunque sia la cifra: non accetto neanche un centesimo. E, in ogni caso, non voglio che siano le assicurazioni a mettere i soldi: devono essere i responsabili a pagare. Perché il denaro è solo carta, è la famiglia quello che conta nella vita. Mio figlio aveva 22 anni e non c’è più: aveva grandi progetti, voleva sposarsi e farsi una famiglia. Amava i bambini, era pazzo per i suoi nipotini. Invece ora vado tutti i giorni a piangerlo al cimitero, lui che era la mia ragione di vita. Ho ancora davanti agli occhi l’ultima volta che l’ho visto uscire per andare a lavorare. Mi ha detto “Ciao papà, ci vediamo domani”. Voglio avere giustizia per lui e per gli altri, perché li hanno uccisi. Altrimenti significa che in Italia non esiste giustizia».
Intanto alcuni degli indagati, i dirigenti di SiGiFer, hanno ripreso a lavorare sui binari con un’altra azienda, la StarFer.
«Quando l’ho saputo, sono andato a fare un esposto alla guardia di finanza. Per me non è regolare. Quelle persone devono pagare per quello che è successo: prima chi era con gli operai quella notte e poi tutti gli altri sopra, fino a Rfi. Spero che venga fuori tutto».
Dopo quasi un anno, la sua rabbia non è diminuita.
«Perché non accetto che mio figlio non c’è più e che nessuno me lo riporterà indietro. questo silenzio fa paura, mi sembra di combattere contro lo Stato. Però non avrò pace finché non avremo giustizia».
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