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Un libro che è già un classico della memoria negata

La belva ideologica e l'Italia senza pace

“Uccidere un fascista" di Giuseppe Culicchia – L’anatomia di un delitto, la voce che manca, la letteratura che resiste

La belva ideologica e l'Italia senza pace

Giuseppe Culicchia e il suo libro

La letteratura, quando si fa specchio crudele della storia, può diventare atto di giustizia. E Giuseppe Culicchia, con il suo libro Uccidere un fascista, compie questo atto con la mano ferma di chi non teme l’impopolarità e con il cuore acceso di chi, tra le pieghe dell’oblio, cerca la verità. Il testo – o meglio, il requiem narrativo – è un’opera struggente e necessaria che riporta al centro della coscienza civile la figura di Sergio Ramelli, un ragazzo di diciannove anni, uno studente, un militante del Fronte della Gioventù, massacrato a colpi di chiave inglese in nome di un’ideologia che i suoi assassini forse credevano, scioccamente, redentrice e invece era pregna di ferocia. Culicchia non firma un’opera neutra, non adotta il tono di chi osserva da una distanza di sicurezza gli eventi del passato: Uccidere un fascista è scritto come un dialogo impossibile, una lettera mai spedita, una confessione rivolta a chi non potrà più rispondere. L’autore parla direttamente a Ramelli, e lo fa con il rispetto di chi sa di rivolgersi a un morto, ma anche con il tormento di chi non accetta che quel morto sia stato dimenticato, minimizzato, archiviato come nota a piè pagina in un’Italia incapace di confrontarsi con la propria ferocia ideologica.

Culicchia non si limita a raccontare i fatti, li attraversa. Fa rivivere il 13 marzo 1975, il giorno dell’aggressione, e il 29 aprile, quello della morte. Li riscrive con lo stupore raggelato di chi non si capacita ancora che un ragazzo possa essere ucciso per un tema scolastico, per le proprie idee, per l’abito mentale che indossa. Non cerca attenuanti, non indora la pillola della storia: espone la sequenza dei fatti con la precisione di un chirurgo e la sensibilità di un testimone che ha visto troppo per poter tacere. La scelta narrativa è radicale e toccante: non c’è un narratore onnisciente, non c’è distacco cronachistico. C’è l’autore che si rivolge a Sergio. È come se cercasse di colmare, con le parole, un silenzio che dura da mezzo secolo. E in questo sforzo affettuoso e straziante, Culicchia costruisce un monumento di carta per chi un monumento vero, nella memoria collettiva italiana, non ha mai avuto senza polemiche o deturpazioni. Il merito più grande dell’autore non è solo quello di raccontare l’assassinio di Ramelli. È piuttosto quello di mostrare come quel delitto non sia mai davvero finito. Perché la violenza, quando si ammanta di giustificazioni morali, quando diventa pedagogia del sangue, non muore con le sue vittime. Quando arrivò nel consiglio comunale di Milano, quel maledetto 29 aprile 1975, la notizia che Sergio Ramelli era morto scoppiò un applauso di gioia che lasciò allibiti e pieni di lacrime i soli consiglieri del MSI trovatisi in mezzo a quella festa disumana. Questo era il clima. Ma ancora oggi la violenza continua a camminare nei corridoi universitari, nei collettivi, nei comizi, nelle piazze dove ancora oggi si grida che “uccidere un fascista non è reato”.

CUlicchia ci costringe a guardare negli occhi un’Italia che non ha mai chiesto scusa, che ha diviso le vittime in buone e cattive, che ha innalzato l’antifascismo a una religione violenta, dogmatica, vendicativa. Ramelli non è solo un simbolo, è il paradigma di una gioventù bruciata non dalla droga o dal disincanto, ma dall’odio. Un odio lucido, organizzato, pianificato – e poi minimizzato dai giornaloni complici e da una sinistra intellettuale e politica incapace di guardarsi allo specchio. Parlare a Sergio – e non di Sergio – è l’operazione più umana e al tempo stesso letterariamente audace del libro. Culicchia gli racconta tutto quello che è venuto dopo: la mistificazione, la memoria negata, i processi con condanne miti, le commemorazioni ostacolate, i silenzi della cultura ufficiale. Gli racconta di un Paese che ha fatto di tutto per archiviare il suo nome, come se fosse un errore da nascondere piuttosto che una ferita da rimarginare. Ma gli racconta anche della dignità dei suoi genitori, della testardaggine di chi ha continuato a ricordarlo, anno dopo anno, senza odio, senza vendetta. E in questo, Uccidere un fascista si fa romanzo civile, testimonianza morale, atto d’amore. Non c’è compiacimento, non c’è retorica: c’è solo la fatica di dare parola a chi è stato condannato al silenzio eterno. Culicchia scrive con una lingua asciutta, precisa, mai frivola. Ogni frase è un bisturi, ogni capitolo è una stanza d’ospedale. Il lettore si trova costretto a fare i conti con le proprie certezze, con le frasi fatte della storia ufficiale. Questo libro non si legge: si attraversa. Si subisce. E, pagina dopo pagina, ci si ritrova cambiati. Lo stile è ipnotico, a tratti incalzante, a tratti dolente. Non si cerca l’effetto, si cerca la verità. E quando la verità è troppo dura, non si addolcisce: si sussurra con rispetto. In un’epoca di narrazioni semplificate, Uccidere un fascista riporta la letteratura alla sua funzione più alta: dire ciò che fa male, ma va detto. Ci sono libri che fanno discutere, altri che fanno riflettere.

SERGIO RAMELLI IN OSPEDALE

Questo, semplicemente, costringe a ricordare. Non un ricordo neutro, non una cronaca da anniversario. Ma un ricordo attivo, dolente, consapevole. Il libro ha tutte le carte per diventare un classico della memoria negata. Giuseppe Culicchia ha avuto il coraggio che è mancato a molti: quello di raccontare la verità di una vittima scomoda senza chiedere permesso alla morale corrente, al politicamente corretto. Sergio Ramelli, in queste pagine, non è un’icona né un martire ideologico. È un ragazzo, con le sue paure, i suoi desideri, la sua ingenuità politica e la sua voglia di vivere. Ed è proprio per questo che la sua morte pesa come un macigno. Perché è stata inutile, feroce, codarda. E perché, come ci mostra Culicchia, non è mai stata davvero pianta da chi avrebbe dovuto farlo. Uccidere un fascista è un libro necessario. Non solo perché restituisce dignità a un ragazzo barbaramente assassinato, ma perché ci ricorda che la giustizia, quando tardi ad arrivare, può e deve passare anche dalla scrittura. Giuseppe Culicchia ha firmato una delle opere più coraggiose della letteratura italiana contemporanea. Una forma struggente di dialogo con i morti, un atto di resistenza contro la faziosità, un omaggio sincero a un simbolo di libertà tradito da un’intera generazione. E in un tempo in cui tutto si riduce a slogan, leggere queste pagine significa finalmente ascoltare una voce che, troppo a lungo, è stata messa a tacere. Sergio Ramelli non risponderà mai. Ma ora, almeno, qualcuno ha avuto il coraggio di parlargli. E di farlo con rispetto, con amore, con rabbia. Come si parla solo ai giusti.

 

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