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il programma in tv
11 Giugno 2025 - 10:05
Un condannato all’ergastolo per l’omicidio di una tredicenne. Un’intervista in prima serata. Una rete pubblica. È questo il servizio pubblico?
Nella serata di martedì 10 giugno, milioni di italiani hanno assistito su Rai2, durante il programma Belve Crime, a un’intervista che ha dell’inquietante, più ancora che del giornalistico: Francesca Fagnani ha incontrato Massimo Bossetti, l’uomo condannato in via definitiva per l’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina tredicenne scomparsa nel 2010 e ritrovata morta in un campo tre mesi dopo. Il tutto è andato in onda come se si stesse parlando con una celebrità.
Undici anni dopo il suo arresto, Bossetti ha parlato dal carcere di Bollate proclamando ancora una volta la propria innocenza, non è questa la sede per ribaltare un processo giudiziario, ma è doveroso chiedersi: è accettabile, in uno Stato di diritto, che un canale del servizio pubblico conceda uno spazio così ampio a chi è stato ritenuto responsabile di un delitto così brutale?
L’intervista si è mossa sul filo di un’ambiguità costante: Bossetti si è raccontato come vittima di un sistema giudiziario ingiusto, ha parlato della sua vita in carcere, del rapporto con la moglie e i figli, della sua rabbia trasformata in forza. Ma soprattutto ha avuto modo di reiterare – ancora una volta – la sua versione, in aperto contrasto con la verità processuale. Nessuna contraddizione è stata davvero incalzata. Nessuna parola è stata dedicata a Yara, se non come sfondo tragico.
Ci si chiede allora: dove finisce il giornalismo e dove inizia la macchina dello show? Siamo ormai abituati alla cronaca nera trattata come un genere narrativo, ma qui si è varcata una soglia pericolosa.
È difficile non notare la costruzione mediatica che ruota attorno a Bossetti, trasformato in un “caso umano” piuttosto che in ciò che la giustizia ha stabilito che sia. Anche elementi marginali, come le lampade abbronzanti fatte di nascosto dalla moglie o il tentato suicidio in cella, diventano aneddoti di una narrazione che scivola sempre più nel voyeurismo. E mentre lui racconta i suoi dolori, le sue difficoltà, i suoi ricordi confusi di quel giorno maledetto (“non so dove fossi, pioveva, il telefono era scarico”), il ricordo di Yara, di ciò che è stato fatto al suo corpo, resta sullo sfondo. Imbarazzante.
Non è in discussione il diritto di cronaca. È legittimo che un giornalista voglia raccogliere la testimonianza di chi si proclama innocente, anche dopo una condanna. Ma è altrettanto lecito interrogarsi sul modo in cui questa testimonianza viene proposta e, soprattutto, sul perché farlo in prima serata, con toni a tratti morbidi e senza un adeguato contrappeso informativo.
Ma il vero scandalo è istituzionale. Che la Rai, finanziata con il canone dei cittadini, abbia scelto di mandare in onda un’intervista del genere in prima serata, è un atto che non può passare sotto silenzio. Non è censura chiedere responsabilità. È decenza. Il dolore, quando diventa spettacolo, perde il suo significato. La giustizia, quando si dà voce solo a una delle parti condannate, rischia di trasformarsi in una farsa.
L’informazione ha il diritto – e il dovere – di raccontare. Ma dovrebbe farlo senza dimenticare che, prima delle interviste e delle telecamere, esistono una vittima, una sentenza, una verità giudiziaria. E un Paese che merita rispetto più che share.
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