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L'editoriale
27 Agosto 2025 - 15:30
C’è un vizio antico nella politica italiana: il doppio standard. Quando si parla di centri sociali, il copione si ripete. Si invoca lo sgombero di CasaPound a Roma, mentre si difendono e addirittura si celebrano decine di spazi occupati di estrema sinistra, spesso legati a episodi di illegalità e violenza. Una contraddizione che il ministro della Cultura Alessandro Giuli ha avuto il coraggio di mettere a nudo: «No a un ipotetico sgombero di CasaPound nella misura in cui l’organizzazione si allinea a criteri di legalità». Parole semplici, che hanno riacceso un dibattito mai sopito. La scintilla è stata lo sgombero del Leoncavallo di Milano, centro sociale storico dell’ultrasinistra. Subito qualcuno ha preteso il “bilanciamento”: se cade il Leoncavallo, deve cadere anche CasaPound. Un ragionamento che rivela tutta l’ipocrisia di chi finge parità di trattamento solo per mascherare l’odio ideologico verso l’unica realtà non di sinistra. Perché nessuno ricorda che in Italia non ci sono due centri sociali. Ce ne sono centinaia, quasi tutti collocati a sinistra, spesso protagonisti di occupazioni abusive, concerti irregolari, scontri di piazza. Eppure queste strutture vengono difese e coccolate da sindaci e amministrazioni progressiste che le descrivono come “luoghi di cultura e socialità”. L’esempio più evidente è Torino, dove il Comune ha avviato un percorso di “legalizzazione” del centro sociale Askatasuna. Un luogo che non ha mai nascosto la propria natura: i militanti rivendicano l’uso della violenza politica come strumento di azione, e hanno guidato per anni le devastazioni No Tav in Val di Susa, costringendo lo Stato a mantenere presidi permanenti che costano milioni di euro ai cittadini. In questo quadro, CasaPound appare come un bersaglio comodo. Eppure le attività che porta avanti si concentrano soprattutto sul piano sociale ed emergenziale, in particolare nell’ambito abitativo. Certo, la sua identità politica è chiara e non rinuncia ai suoi simboli che possono dividere. Ma le accuse di “fascismo” che periodicamente vengono rilanciate servono più a criminalizzare che ad analizzare i fatti.
Perché se il parametro è la legalità, allora la stessa regola deve valere per tutti. Chiudere CasaPound e non toccare Askatasuna o gli altri centri sociali di sinistra sarebbe un insulto alla coerenza. Il ministro Giuli, con la sua dichiarazione, ha ricordato un principio elementare: non si sgombera per ideologia, ma per illegalità. E se CasaPound si muove entro criteri legali, non c’è motivo per decretarne la chiusura. Anzi, la politica ha il dovere di dire chiaramente ciò che pensa. Non è un esercizio neutrale: un ministro non è un burocrate, è un politico che rappresenta una maggioranza eletta dal popolo. Ecco perché i richiami alla legalità, se piegati a convenienza, diventano una foglia di fico. Da anni assistiamo a tolleranza zero verso l’unico centro sociale non di sinistra e a tolleranza infinita verso quelli rossi. È questo il nodo che avvelena il dibattito pubblico. Il problema vero, allora, non è CasaPound. È la capacità dello Stato di affrontare la questione dei centri sociali senza ipocrisie. Se la violenza è violenza, allora la priorità dovrebbero essere Askatasuna e i No Tav. Se l’illegalità è illegalità, allora decine di occupazioni abusive dovrebbero essere sgomberate prima ancora di discutere di CasaPound. La voce di Giuli rompe il conformismo mediatico. Non difende un simbolo politico, ma un principio universale: la legge deve valere per tutti o perde la sua legittimità. Chi oggi invoca lo sgombero di CasaPound e nello stesso tempo difende Askatasuna dovrebbe guardarsi allo specchio. Il vero scandalo non è un palazzo occupato a Roma, ma l’ipocrisia di chi parla di legalità solo quando conviene.
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