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Opinioni & Commenti
09 Ottobre 2025 - 12:50
Ogni tanto la sinistra italiana, rimasta senza santi e senza strategie, trova una figura a cui votarsi. Dopo Giuseppe Conte, ecco Francesca Albanese: giurista ONU, relatrice sui Territori palestinesi, già ribattezzata dal Corriere della Sera “Nostra Signora dei Propal”. Il titolo è perfetto: perché Albanese non guida, predica. È la santa laica di un mondo politico che non sa più distinguere tra un dossier e un vangelo. Il meccanismo è collaudato: l’ONU le affida un ruolo tecnico, i media la trasformano in un personaggio. Non appena denuncia Israele per “genocidio”, si apre il rosario mediatico. Talk show, interviste, applausi: finalmente una che “dice la verità”. Il problema è che la verità, in politica, non basta dirla — bisogna saperci convivere. E Francesca Albanese, più che convivere, sembra volerla usare come clava. Se la realtà non è d’accordo, peggio per la realtà.
Il gesto simbolo della sua arroganza resta la fuga da In Onda: si alza, saluta, e lascia lo studio perché “gli interlocutori non erano preparati”. Non preparati, traduzione: non d’accordo. È l’atteggiamento tipico di chi confonde la competenza con la divinità. Albanese non discute, ammonisce. La differenza tra una giurista e una predicatrice è la stessa che passa tra un’analisi e un’epifania. La scena si è ripetuta a Reggio Emilia, dove il sindaco Luca Vecchi, in un incontro pubblico, ha osato contraddirla sulla questione palestinese parlando degli ostaggi israeliani. Lei, da palco, lo ha zittito con la sicurezza di chi è convinto che il dissenso sia una forma di ignoranza. Il pubblico ha applaudito, naturalmente: non per convinzione, ma per abitudine. In un Paese che scambia la fermezza per profondità, ogni tono deciso diventa un dogma.
La sinistra, intanto, si aggrappa a lei come a un’àncora morale. È un’operazione di sostituzione simbolica: mancano i leader, si fabbricano i miti. Albanese riempie il vuoto con una certezza granitica, la stessa che oggi tiene in piedi il populismo — solo con vocabolario diverso. Dove altri gridano “onestà!”, lei scandisce “genocidio!”. È il nuovo linguaggio della purezza, perfetto per un’epoca che preferisce indignarsi piuttosto che capire. Anche le sanzioni americane, ricevute per le sue accuse a Israele, sono diventate materiale per la leggenda: “una tecnica mafiosa di intimidazione”, ha detto. Il martirio come marketing. Ogni colpo ricevuto diventa un applauso in più. Ogni critica, una conferma. Non c’è differenza tra persecuzione e promozione, se il proprio ruolo è quello della vittima sacra.
Poi ci sono le opacità, le note a margine: il curriculum ONU in cui si definisce “lawyer” senza esserlo, il marito con legami istituzionali palestinesi, le accuse di parzialità. Dettagli, certo. Ma il moralismo è allergico ai dettagli: l’indignazione non tollera postille. E così, anche l’infallibilità diventa una questione di fede. La sinistra la celebra perché ha bisogno di crederci. In mancanza di un progetto, si costruisce un altare. Francesca Albanese non è un fenomeno politico: è una funzione simbolica. Serve a un fronte che non sa più parlare di lavoro, salari, futuro, e preferisce parlare “in nome del mondo”. In un tempo in cui la serietà vale meno di una clip virale, una donna in tailleur che parla come un’enciclica fa più rumore di cento congressi. La verità è che Francesca Albanese non rappresenta la sinistra: rappresenta la sua nostalgia. Quella di quando credeva di essere moralmente superiore. E come ogni nostalgia, si consuma nel compiacimento. È la santità che serve oggi: a costo zero, senza mandato e con diretta su La7. Alla fine resta l’immagine: lei, severa, il pubblico in adorazione, e una sinistra che confonde la coerenza con la competenza. Francesca Albanese è l’icona perfetta per un’epoca che si accontenta delle verità altrui purché siano dette con tono solenne. E vissero tutti indignati e contenti.
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