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CRONACA GIUDIZIARIA

Accusata di tentato omicidio, viene condannata per stalking: nove mesi di pena. Ma non farà un solo giorno di carcere

L'arringa del suo avvocato, Domenico Peila, mette in luce anni di disagio e fragilità. E alla fine il collegio ridimensiona i capi d'accusa

Accusata di tentato omicidio, viene condannata per stalking: nove mesi di pena. Ma non farà un solo giorno di carcere

Una vicenda che si chiude con una pena molto diversa da quella richiesta dall’accusa. Oggi, 26 novembre, il tribunale ha condannato a nove mesi, con la sospensione condizionale, la donna di 42 anni arrestata lo scorso aprile all’ospedale di Chieri. Il pubblico ministero Roberto Furlan aveva chiesto sette anni di carcere per tentato omicidio; il collegio delle giudici, presieduto da Immacolata Iadeluca, ha invece riconosciuto il reato di stalking. In aula la donna — assistita dall’avvocato Domenico Peila — ha ripercorso quel giorno: la morte del compagno, ricoverato da tempo, lo shock, l’alcol bevuto subito dopo. “Mi è crollato il mondo addosso. Non ricordo quasi niente”. Da anni fa uso di eroina e cocaina. Qualche ora dopo il decesso era tornata in ospedale con un coltello di 20 centimetri nascosto sotto i vestiti. “Non so dove l’ho preso. Non volevo fare del male a nessuno”. La donna aveva raggiunto l’ingresso del reparto di rianimazione, urlando frasi confuse e cariche di rabbia: “Il medico mi ha detto che è morto mio marito, è stato lui a ucciderlo. Devo fare qualcosa. Sono venuta per ammazzarlo”. Il reparto era chiuso e il dottore non ha avuto contatti con lei. Il personale ha allertato i carabinieri, arrivati in pochi minuti. Sentito come testimone, il medico ha spiegato la sua scelta: “Non mi sono costituito parte civile. Non voglio risarcimenti da una persona che ha sofferto così tanto. Chiedo solo rispetto per le istituzioni”. Conosceva le fragilità della coppia: “Era giusto che lei potesse restare fino all’ultimo accanto al compagno”. La procura aveva inizialmente ipotizzato anche la premeditazione. Per il difensore, non ci sono elementi: “La mia assistita alterna lucidità e disagio. Ha avuto una vita difficile, oltre 20 anni di uso di stupefacenti. In ospedale non ha mai estratto il coltello. Non esiste prova di un intento omicida né che fosse diretto al medico”. La donna era incensurata. 

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