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economia
24 Giugno 2025 - 11:40
Era il 2022 e in un’aula dell’Università Bocconi di Milano si teneva una lezione di storia del pensiero economico. Il professore si fermò per fare una domanda semplice agli studenti del corso magistrale di Economic and Social Sciences (Ess), uno dei più selettivi d’Europa: «Perché la deflazione è un problema?». In aula erano in settanta, ma nessuno rispose correttamente.
Curioso, se si pensa che da quelle aule escono futuri dottorandi destinati a Princeton, Stanford, MIT. Ma il silenzio non stupisce chi conosce l’evoluzione della disciplina economica. Da almeno vent’anni, l’economia accademica si sta trasformando: meno teoria classica, più modelli matematici, meno domande fondamentali, più studi empirici, anche su temi apparentemente estranei all’economia stessa.
Dalla demografia alla psicologia, dalla sociologia alla storia, gli economisti hanno iniziato a esplorare (e colonizzare) altri territori, forti dei loro strumenti analitici e statistici. E non senza polemiche.
«Se sfogli un numero dell’American Economic Review degli anni ’70 ci trovi solo articoli su inflazione, tasse e disoccupazione. Oggi un quarto dei paper riguarda temi che la gente nemmeno associa all’economia», racconta Paolo Pinotti, prorettore alla Bocconi. Il cambiamento nasce da due spinte: la prima è la crescente importanza dei metodi quasi sperimentali, usati per isolare relazioni di causa-effetto nel mondo reale; la seconda è la straordinaria adattabilità di questi metodi, che permette agli economisti di studiare qualsiasi fenomeno – purché ci siano dati.
Il risultato? Studi economici su partiti politici, salute mentale, social media, criminalità, matrimoni. Pinotti stesso, da economista, si è occupato anche di immigrazione, scuola e comportamenti elettorali. E non è il solo. Il punto è che, rispetto ad altre scienze sociali, gli economisti sono ben armati per affrontare la nuova abbondanza di dati digitali. E le pubblicazioni interdisciplinari, se ben costruite, fanno carriera. Ma a volte l’invasione è frettolosa.
«Un economista che si mette a modellizzare questioni sociologiche senza conoscere la letteratura rischia di dire banalità», avverte Roberto Golinelli, professore di econometria a Bologna. I colleghi di altre discipline – storici, sociologi, politologi – non sempre gradiscono. E accusano: superficialità, semplificazioni eccessive, arroganza epistemica. L’accusa più ricorrente è che gli economisti tendano a imporre il loro metodo come standard per tutte le scienze sociali, trattando la loro disciplina come la più oggettiva e scientifica. «C’è un premio Nobel per l’Economia, cosa che non esiste per la sociologia o la storia», nota Emanuele Felice, storico economico alla IULM. «Questo status la disciplina se l’è costruito, anche con l’idea che il suo approccio sia più affidabile».
Ma è davvero così? La formalizzazione matematica è utile, ma spesso riduce la complessità dei fenomeni sociali a modelli troppo astratti. Serve cautela, soprattutto quando si studiano temi sensibili come la salute mentale, le disuguaglianze o le scelte affettive. Semplificare non sempre significa chiarire.
La verità è che l’economia accademica sta cambiando pelle. E forse ha già smesso di essere solo economia. La direzione è chiara: sconfinare, contaminarsi, applicare i propri strumenti ovunque. Una strategia che funziona anche in termini di reputazione: negli ultimi trent’anni, le citazioni degli economisti da parte di ricercatori di altre discipline sono cresciute costantemente.
Ma, nel farlo, gli economisti rischiano di perdere un pezzo della loro identità. O, quantomeno, di trascurare quella teoria economica che un tempo era la loro vera bussola. Come nella lezione alla Bocconi: dove settanta futuri top accademici non sapevano spiegare cos’è che non va, davvero, nella deflazione.
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