Quattro aerei di linea, 19 dirottatori, tremila morti. Uomini e donne sepolti vivi dalle macerie dei grattacieli più alti di
New York che vengono avvolti da una palla di fuoco e poi da una polvere che, vent’anni dopo, continua ad annidarsi anche qui. Negli angoli di un
Occidente ferito e sconfitto dal veleno del terrorismo, ma anche dai propri errori che ora lo espongono a nuovi attacchi eclatanti della jihad. Con la nostra intelligence che invita prefetti e questori a tenere gli occhi aperti sugli obiettivi sensibili soprattutto oggi, casomai qualcuno volesse celebrare l’11 settembre in modo che il nemico abbia qualcos’altro da ricordare.
Il nemico, abbiamo compreso allora, siamo noi. Le nostre libertà, la nostra economia, il nostro modo di pensare. E per farcelo capire hanno scelto immagini forti che avevamo visto soltanto nei film, con la realtà impensabile trasmessa in diretta dalla
Cnn. La scritta
“America under attack” sotto le immagini delle
Twin Tower che collassavano alternate alla fotografia di un uomo con la barba lunga e il volto gentile. E un’altra striscia in sovraimpressione -
“Wanted ”- mentre il mondo scopriva il nome di
Bin Laden. È per stanare lui che l’11 settembre l’aveva ideato e finanziato che siamo andati in guerra. Ma alla fine ha vinto lui. Da morto.
Come testimoniano le immagini di un altro massacro che si è consumato il 27 agosto di quest’anno, all’
aeroporto di Kabul. In mezzo, vent’anni. Il tempo infinito di una guerra inutile che ha umiliato l’
America e l’
Occidente in una fuga disordinata da un A
fghanistan precipitato di nuovo nella morsa dei talebani e dell’
Isis, dell’oscurantismo e di un terrorismo che adesso potrebbe colpire ancora. Anche qui. «L’
Occidente - sostiene senza giri di parole
Andrea Margelletti, presidente del
Cesi, il Centro studi internazionali, esperto di geopolitica e strategia militare - rischia un altro
Bataclan, una ripresa del terrorismo che adesso ha a disposizione un intero Paese, l’
Afghanistan appunto. Vedremo probabilmente altri attentati negli
Stati Uniti e in
Europa».
L’unico dubbio sembra riguardare il quando e il dove. Quanto al perché, fino ad ora, il nostro Paese non sia stato colpito duramente come altri, secondo
Margelletti bisogna ringraziare i nostri 007. Ma non solo. «È l’intero sistema - afferma - a essere superiore anni luce a quello degli altri Paesi europei». Un sistema che qui, sotto la
Mole, ha potuto contare su una figura come quella di
Giuseppe Petronzi, ex capo della
Digos e ora questore a
Milano, tra i massimi esperti di terrorismo internazionale, inviato (con il pm
Marcello Tatangelo) anche a
Guantanamo dove, tra gli altri detenuti in divisa arancione, c’era un certo
Saleh Sassi. Tunisino, ex venditore di frutta a
Porta Palazzo, Sassi è stato uno dei primi foreign fighters quando la guerra si combatteva in Afghanistan. Liberato dal carcere cubano, dopo un periodo trascorso in
Albania, è tornato a casa. E se volesse potrebbe tornare in qualsiasi momento qui, a
Torino, dove continua a vivere la sua famiglia.
Libero di tornare, anche l’
imam di Carmagnola, Fall Mamuor, la prima guida spirituale espulsa perché ritenuta pericolosa per la sicurezza del nostro Paese. Stessa sorte toccata a
Bouiriqi Bouchta, macellaio a
Porta Pila, e poi al predicatore di
via Cottolengo, l’
imam Mohamed Kohaila. Predicatori d’odio, secondo la
Digos. Nell’unica città d’
Italia in cui sia mai stato trovato un arsenale dei jihadisti. Era il 1998,
Bin Laden non si sapeva neppure chi fosse. Le armi erano in un garage di
via Tonale 27/bis, nascoste con documenti falsi e lingotti d’oro. Vengono arrestate tre persone, e una donna italiana, sposata con un egiziano, denunciata e poi assolta.
Tra di loro c’è anche
Misbah Alì Hassanyn’Azab. Dice di chiamarsi
“Roger” Hamoud Naji, di essere nato a
Gaza e di «lavorare per una associazione di beneficenza a favore degli orfani musulmani». Quando si riuscirà a scoprire la sua vera identità, che è sospettato di attentati contro obiettivi americani, lui sarà già lontano. E soltanto dopo ci si ricorderà di un numero di telefono trovato nel garage. Intestato a un certo
Mohammed Atta, di Amburgo. Un nome che tutti avrebbero conosciuto soltanto tempo dopo: era uno dei kamikaze delle
Torri gemelle.
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