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IL BORGHESE

220 miliardi a Fiat. E adesso?

Leggi il commento del direttore Beppe Fossati

220 miliardi a Fiat. E adesso?

220 miliardi a Fiat. E adesso?

Brindiamo al cioccolato e all’arte. Contiamo il numero dei visitatori, aggiungiamo il business degli albergatori e dei ristoranti. La Torino turistica, pur con qualche scivolata, vive un novembre da record. E ne siamo lieti. Ma l’architrave manifatturiero della nostra città rischia un declino che non investe solo le grandi fabbriche, ma anche un indotto che fino a qualche anno fa tutta l’Europa ci invidiava. Chiavi inglese e cervello, matite raffinate e inventiva. Hanno pescato qui, nel nostro straordinario ingegno, un po’ tutti i grandi costruttori.

Pininfarina e Giugiaro, per citarne solo due, lo testimoniano. Poi è arrivata la nebbia. E l’abbandono cominciato con il funerale della Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino Poi Fca, infine Stellantis (che osa persino mettere in vendita lo stabilimento della Maserati su Immobiliare.it, come fosse una mansarda in periferia) ci hanno svenduti. E noi dimentichiamo persino che in 45 anni la Fiat dell’Avvocato Agnelli ha succhiato 220 miliardi di soldi pubblici, prima di salutarci per portare la sede all’estero e cominciare il valzer che ha portato gli eredi a fondere tutta la baracca in Stellantis.

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Così si è arrivati ai giorni bui e a un declino che deve essere fermato. Torino e il suo indotto hanno un potenziale realizzativo di oltre 1,5 milioni di vetture l’anno, ma ora siamo sotto le 500mila e le promesse di arrivare a un milione che l’ad di Stellantis Carlos Tavares ha fatto qualche mese fa, sono rimaste lettera morta. Certo possiamo corteggiare Elon Musk, ceo della Tesla, affinché porti qui a Torino la nuova fabbrica europea del suo gruppo, o confidare in un panino (forse indigesto) con Suv a poco prezzo marchiati Cina.

Ma non può essere questo il futuro se lo si gioca come se si trattasse di un Gratta&Vinci. Serve una politica forte del governo e soprattutto un’alzata di orgoglio della nostra imprenditoria insieme alle istituzioni locali. Non è più il tempo delle beffe, come quella (l’ultima) di lasciare al freddo i lavoratori che già vivono con gli stipendi ridotti dalla cassa integrazione.

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