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Il futuro dell'automotive

L'Italia ha davvero bisogno di Stellantis? I numeri parlano chiaro

Sindacati e governo corteggiano costruttori stranieri, da Musk a Byd

L'Italia ha davvero bisogno di Stellantis? I numeri parlano chiaro

Si dice Torino e si pensa alla Fiat. Valeva in passato e, nell'analisi politica e in certo pensare, vale ancora oggi. "Ciò che va bene per la Fiat, va bene per l'Italia" era il mantra attribuito, da sempre, all'Avvocato Gianni Agnelli. Anche se quella frase fu forse pronunciata da Vittorio Valletta, il ragioniere che dal Dopoguerra tenne a galla la Fiat mentre il nipote del fondatore faceva il playboy in giro per il mondo, finché - all'età di 45 anni - decise di occuparsene. Per decenni la produzione industriale italiana era legata ai destini di Mirafiori - in senso lato - e dunque: miliardi di lire in varie forme, dalla cassa integrazione agli incentivi per la rottamazione, condizioni di comodo per acquisire aziende decotte - l'Alfa Romeo svenduta dall'Iri di Romano Prodi -, la corsa dei politici di vari luoghi per portare Fiat nei propri collegi elettorali o zone di influenza. Pomigliano, Termini Imerese, Cassino: sono tutti luoghi legati a grandi progetti di espansione e poi passati attraverso traversie e destini differenti. 

Tutto questo ha avuto senso per molto tempo, ma oggi, con Stellantis che ha incorporato la vecchia Fiat dandole una natura globale che neppure Fca - dalla fusione con Chrysler voluta da Marchionne - ha mai conosciuto, possiamo dire lo stesso? I numeri, a essere sinceri, dicono già tutto.

Il grafico che vedete qui sopra riporta i dati delle immatricolazioni di auto in Italia a raffronto con quelli del Gruppo Stellantis, che comprende una dozzina di marchi differenti. La proporzione appare chiara. E occhio alla porzione del grafico in alto a destra, la rappresentazione della percentuale di mercato di Stellantis (in blu) rispetto al totale dell'Italia. Il Gruppo Stellantis, con una dozzina di marchi, sul mercato italiano cuba circa il 28% - in discesa. Dunque, lasciando da parte una certa “sudditanza” che i torinesi hanno sempre avuto nei confronti degli Agnelli, ora basta favori, apriamo le porte ad altri costruttori.

Lo dice chiaramente Giorgio Airaudo della Fiom, che dopo aver invitato a Musk a investire a Torino, ora ci prova con la cinese Byd, che ha superato proprio Tesla a livello mondiale, tra le auto elettriche. E il ministro Urso corteggia l’italiana filocinese DR. Al di là del fatto che Byd ha già scelto l’Ungheria e Tesla la Germania, la DR per ora vale poco più dell’1% del mercato, Byd lo 0,1. Decimali. Di cui per Torino, e l’Italia, è impossibile accontentarsi. Per aprire le porte a veri investitori serve un peso politico che, a livello globale, ancora non abbiamo. E , dall’altra parte, lo sanno benissimo.

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