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IL REPORTAGE

"Papà, guarda come tiro": un pomeriggio di abbracci, giochi e attese nel carcere di Ivrea

Tra palloni, disegni e fotografie, dieci famiglie si ritrovano nel campo sportivo della Casa Circondariale di Ivrea per qualche ora fuori dal tempo. Dove i muri non scompaiono, ma si fanno più lontani

"Papà, guarda come tiro": un pomeriggio di abbracci, giochi e attese nel carcere di Ivrea

Miri, Davide e Marco

Suonano al campanello della Casa Circondariale di Ivrea, sono quattro donne: Lorena, Veronica, Antonella e Monica. Sono le volontarie di Liberi Legami e Prison Fellowship. Che in un caldo pomeriggio che anticipa l’estate si presentano davanti alla porta del penitenziario con delle borse: all’interno palloni di spugna, colori, carta per disegnare, giochi. E tutto l’occorrente per una merenda golosa.

Entrano, salutano, qui sono di casa. Insieme alle educatrici (sono tre a lavorare nel carcere eporediese) e al personale penitenziario, velocemente organizzano un’area da giochi in quello che è il campo sportivo del penitenziario. È la giornata “Bambini dietro le sbarre”, quella che prevede la partita con mamma e papà. Ed ecco che intorno alle 15.15 arrivano una decina di donne con i figli: la più piccola ha poco più di un anno e la più grande è un’adolescente. Le donne sono tutte giovani, entrano, si siedono, chiacchierano tra loro. Si conoscono tutte e i bambini sono già corsi a giocare, chi con l’acqua e chi con i palloni.

Poi arrivano loro, i papà: sono tutti detenuti del carcere eporediese. La scena però che si para davanti a un occhio da spettatore ricorda molto l’uscita della scuola, quando la campanella suona e i ragazzini si precipitano alle porte degli edifici scolastici dove i familiari attendono. Qui è il contrario: all’apertura della porta sono i piccoli a correre verso i “grandi”. I padri li abbracciano, li prendono in braccio. Un assistente (perché a Ivrea gli agenti penitenziari li chiamano come dovrebbero, assistenti) sorride mentre guarda alla scena. Gli uomini baciano le donne, prendono loro la mano, i bambini gli saltano intorno. Io con la mia macchina fotografica catturo tutto.

“Certo che puoi fotografarci: i cellulari non possono entrare, quindi è una delle poche occasioni che abbiamo per avere qualche foto di famiglia”, dice una donna. Quella frase fa tornare con i piedi a terra. Perché nonostante sembri di stare a una delle feste di compleanno che spesso si vedono nei giardini, ci troviamo in carcere. Le educatrici scendono in campo, chiacchierano con le famiglie. I tavoloni di cemento che di solito servono per “l’ora d’aria” adesso sono imbanditi di succhi di frutta, merendine e leccornie. Una bambina sta colorando cuori, uno fucsia e uno rosso, le sfumature curate. Un’altra, piccola, con la maglia del Milan, sta tirando calci in porta dove il suo papà, un uomo altissimo, la invita a tirare la palla.

“Queste giornate per noi sono preziose”, sorride la mamma, una giovane ragazza con i capelli scuri e gli occhi molto chiari. Mi racconta che l’uomo è stato anche “alle Vallette per un periodo ma non c’è paragone. A Torino c’è un sacco di gente e giornate come questa non si riescono a trascorrere”. E anche l’ambiente, a detta dell’uomo, è meglio. “Qui andiamo tutti molto d’accordo tra noi, è raro che vi siano zuffe in sezione” spiega mentre lascia che la sua piccola principessa segni un rigore degno della nazionale del 2006.

Poco più in là c’è Marco, ha circa due anni, sta giocando con l’acqua. Improvvisa gavettoni per tutti, gioca con gli altri bambini, scherza e ride. Suo papà intanto sta aiutando un altro papà, quello della piccola Ana, la bimba più piccola di cui parlavo poco più sopra. Stanno mettendo dei teli nell’erba, lenzuoli di cotone che profumano, li hanno portati dalle celle. Servono perché la piccola possa gattonare senza che la sua pelle delicata vada a sfregare con l’erba. Ana è in braccio alla mamma e entrambe si lasciano immortalare, la ragazza sorride e la piccola sgrana due occhi chiari e curiosi. Intanto i teli sono a terra. Ma quando Marco vede quei lenzuoli, il suo istinto è di correre addosso a suo padre, come a placcarlo: Davide, suo padre, si fa trovare e insieme i due rotolano tra risate e baci che schioccano.

“Quando Davide era a casa” racconta Miriana “anche se tornava tardi da lavoro il tempo per Marco lo trovava sempre. Un padre eccezionale” dice la ragazza, senza staccare gli occhi da quella scena, così semplice e così preziosa. Li guarda e gli angoli della bocca si distendono, sembra voglia fissare quelle immagini nella sua testa. Miriana ha i capelli che profumano di cocco, mossi, scuri, lunghi. I suoi occhi sono grandi, a guardarla non si direbbe che cosa passa. E non sarò io a raccontarlo qui sopra, non al dettaglio: basti sapere che la storia d’amore che la lega al suo compagno comincia quando erano poco più che bambini e che insieme hanno passato davvero periodi difficili. Ma lei lo aspetta. Da due anni, attende. E Davide dovrebbe essere libero tra poco, anche grazie ai diversi sconti di pena che ha conquistato con la sua ottima condotta dentro.

C’è N., 23 anni, un bimbo piccolo e uno in arrivo. Manca pochissimo: il nuovo arrivato si chiamerà Samuel, e la probabilità che nasca lo stesso giorno di suo papà è tanta. Le chiedo una foto, davanti alle finestre. A simboleggiare un’attesa.

Attende chi è dentro, attende chi è fuori. Attende chi è libero, attende di venire al mondo chi è ancora in un pancione. N. è di una timidezza disarmante; ma si lascia fotografare e poco dopo arriva il suo compagno che posa con lei. Non è la classica foto in studio che si fa prima di una nascita. Ma c’è qualcosa di unico e di dolce. E poi c’è Leo: 18 mesi, divisa granata, la mascotte di tutti. Leo si muove come se fosse di casa, attira l’attenzione di tutti, si mette in posa per le foto cambiando espressioni. Sua madre sorride, anche lei giovane, un abito verde acqua che scopre un tatuaggio colorato su una spalla. Arriva C., il suo compagno: con Leo vanno a “salutare” i compagni del papà, sotto i finestroni delle stanze che danno sul campo da calcio.

Nel carcere eporediese ci sono 280 detenuti. 112 sono stranieri, 7 sono donne transgender: il resto sono tutti italiani e molti di loro, come mi spiega Laura Regini, funzionaria giuridica pedagogica che lavora alla Casa Circondariale, sono molto giovani.

Il carcere di Ivrea è all'estrema periferia est della città, lo stabilimento costruito all'inizio degli anni '80 da 8 semisezioni disposte su 4 piani:

  • definitivi adulti

  • definitivi giovani adulti

  • appellanti e ricorrenti giovani adulti

  • 1° livello tossicodipendenti

  • dimittendi

  • semiprotetti

  • art.21 e semiliberi

  • isolamento (5 posti più una cella liscia)

A queste va aggiunta una sezione per collaboratori. C'è anche un gattile: 7 mici di cui i detenuti si prendono cura quotidianamente.

Gli spazi comuni interni prevedono: sala polivalente (serve da cappella, sala per spettacoli, ecc.); una piccola palestra; in ognuno dei quattro piani: alcune piccole salette per colloqui con gli operatori e i volontari, per giochi (calciobalilla, tennistavolo), piccole aule scolastiche, piccoli spazi per laboratori artigianali. I posti sono 195: come dicevamo prima adesso ci sono 280 presenze, un numero importante. Sovraffollato, come tutti i penitenziari italiani, ha una navetta che tutti i giorni dalla stazione parte ogni mezz’ora circa. Come fanno le tre donne pakistane in abiti colorati e mani tatuate all’henné, moglie e figlie di un uomo che si trova a scontare la sua pena a Ivrea, mentre le donne partono da Torino centro.

Qui i colloqui sono un paio di volte alla settimana e queste giornate, fortunatamente non rare, sono soventi. La mamma di Leo mi dice che il suo compagno può sentirla tutti i giorni se vuole. I detenuti hanno una telefonata di dieci minuti a disposizione al giorno, più sei in un mese sempre da dieci minuti l’una. Mi avvicino agli assistenti, scambiamo due chiacchiere. Anche loro sono consapevoli di quanto sia importante creare momenti come questi, stemperano la tensione. Inoltre sono deterrenti a comportamenti dannosi dentro le mura del penitenziario. Perché in effetti, a Ivrea, da cosa sembra per lo meno, c’è più da guadagnarci a comportarsi bene che fare il contrario. E intanto è scesa anche la direttrice, Alessia Aguglia. Va a salutare tutti e li conosce per nome di battesimo. Compresi i bambini con cui si intrattiene anche qualche minuto a giocare.

La direttrice di Ivrea non è solita a rilasciare interviste, ma guardandola muoversi è facile intuire il perché: conosce le storie e i nomi di coloro che sono dentro, non perde tempo dietro comunicati. Però comunque qualche parola riesco a “strapparla” e lei mi conferma che le iniziative dentro sono diverse, volte quasi tutte alla salvaguardia della genitorialità delle persone ristrette. A Ivrea hanno fatto un pranzo nel periodo di Natale, una giornata chiamata “Cinema con papà”, la festa del papà, il Giubileo delle Famiglie.

“Sono momenti davvero importanti per tutti. E sono extra, non vengono conteggiati come colloqui”, spiega. Me lo conferma una mamma poco dopo: “Anche mio marito è stato in altri penitenziari prima ma devo dire che qui è un’altra cosa, lui è un’altra cosa. Sicuramente perché sono meno rispetto alle carceri grandi” mi dice la donna “e poi anche per noi che veniamo a trovarli è diverso. Non attendiamo ore fuori prima di entrare e ammetto che non è difficile riuscire a parlare con qualcuno se ne abbiamo bisogno, parlo di burocrazia. Con questo non voglio dire che non sia difficile perché non è come averlo a casa, ovviamente, ma ringrazio che sia qui”. Intanto Marco ha preso la macchina fotografica e ha deciso di ritrarre le famiglie. Le volontarie stanno giocando con i bambini e dando colori alla pittrice dei cuori che continua a disegnare sfumando colori pastello, mentre suo padre la tiene in braccio, le bacia la tempia e spesso si gira verso la sua ragazza, sorridendola. Le tiene ancora la mano da quando è entrato. Dieci famiglie per un pomeriggio diverso, dove per qualche ora il luogo non è stato un contesto principale ma solo un “posto”.

Il pomeriggio è finito e l’assistente lo annuncia, cinque minuti prima, così che tutti possano salutarsi bene. Un momento da cui aspettarsi emozioni simili al magone: sorprendente invece la serenità delle famiglie.
“Ci sentiamo domani”, si saluta una coppia. “Sai come dorme adesso che arriva a casa?” dice un detenuto alla compagna, riferendosi al bambino che ha corso tutto il pomeriggio. Tutti insieme ci avviamo all’uscita.
“Ciao papà!!!” urla Marco, una mano a Miriana, una a salutare attraverso le reti Davide.
Il papà sorride: “Ciao amori miei. Ci vediamo presto.”

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