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Palcoscenico
22 Febbraio 2025 - 16:44
Federica Di Martino con Gabriele Lavia, marito e collega
C’è molto della vita di Eugene O’Neill nell’opera teatrale che il drammaturgo americano scrisse nel 1940. C’è un parallelismo netto tra la sua famiglia e la famiglia protagonista del dramma. Suo padre James, infatti, fu attore di successo come il James Tyrone della pièce, danneggiato, però, da una singola interpretazione – interpretò per ben seimila volte sul palcoscenico il ruolo principale di una riduzione drammatica de “Il Conte di Montecristo” –; la madre era morfinomane, il fratello Jamie alcolizzato come il suo omonimo del dramma e lui, Eugene, sofferente di tubercolosi come l’altro figlio Edmund nel testo teatrale.
Sarà per il carattere autobiografico dell’opera che O’Neill formalizzò un accordo con la casa editrice Random House, cui aveva consegnato il manoscritto, affinché questo non fosse pubblicato prima di 25 anni trascorsi dalla sua morte. Cosa che non avvenne. “Lungo viaggio verso la notte” fu pubblicato dopo tre anni dalla scomparsa di O’Neill e nel 1957 vinse il Premio Pulitzer. È con questo capolavoro della drammaturgia americana, rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo (del ‘62 l’adattamento cinematografico di Sidney Lumet con Katharine Hepburn e Ralph Richards) che ora Gabriele Lavia si confronta e, porta in scena a Torino, al Teatro Carignano (25 febbraio - 9 marzo), il suo “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill, spettacolo che ha debuttato il 18 febbraio scorso al Teatro Nuovo Giancarlo Menotti di Spoleto nella traduzione di Bruno Fonzi e con l’adattamento di Chiara De Marchi.
Dopo il “Re Lear”, l’attore milanese torna regista e protagonista, questa volta in un cult del teatro statunitense del XX secolo. Con lui: la moglie Federica Di Martino e con loro Jacopo Venturiero, Ian Gualdani, Beatrice Ceccherini. Un viaggio verso la notte che è un viaggio nel dissolvimento di una famiglia, quella dei Tyrone, riunita in una casa nella campagna del Connecticut dove, tra accuse, rimpianti, sensi di colpa, litigi, si consuma il dramma cui assiste impotente il figlio minore Edmund.
«La casa-prigione della “famigliaccia” che O’Neill ci racconta, in fondo, è proprio casa sua – spiega Lavia –. E qui sta il cammino tortuoso di una possibile messa-in-scena-viaggio di quest’opera, davvero amara, scritta da O’Neill ormai vicino alla morte per fare “un viaggio all’indietro” nella sua vita. Un viaggio impietoso dentro l’amarezza di un fallimento senza riscatto».
Perché, aggiunge, «Le vite degli uomini sono fatte di tenerezza e violenza. Di amore e disprezzo. Comprensione e
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