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13 ottobre 1815

L’ultima ora di Gioachino Murat
l’ex re fucilato a Pizzo Calabro

Tradì gli alleati austriaci e si unì nuovamente all’ex sovrano francese

L’ultima ora di Gioachino Muratl’ex re fucilato a Pizzo Calabro

L’ultima ora di Gioachino Murat

Parafrasando la celebre affermazione di Napoleone, il suo “datore di lavoro”, anche Murat avrebbe potuto dire della sua corona che Dio gliela aveva data, e guai a chi l’avrebbe toccata! Così, quando crollò l’impero napoleonico, egli decise di riprendere almeno il suo trono, il periferico Regno di Napoli che il Congresso di Vienna aveva riconsegnato ai Borbone. Certo che di voltafaccia Murat ne aveva già fatti. Nel tentativo di mantenere il suo potere e il sostegno dell’Imperatore Napoleone, Murat tradì gli alleati austriaci e si unì nuovamente all’ex sovrano francese nel 1815.


Nel marzo di quell’anno, dichiarò guerra all’Austria. Tuttavia, la sconfitta di Napoleone nella Battaglia di Waterloo nel giugno 1815 segnò una svolta cruciale. Con Napoleone esiliato sull’Isola di Sant’Elena e la restaurazione della monarchia borbonica in Francia, Murat si ritrovò sempre più isolato.

La sua presa sul trono di Napoli vacillò quando le forze alleate avanzarono verso il sud. Dopo essere stato sconfitto dalle truppe borboniche nel 1815, Murat fuggì a nord alla ricerca di rifugio. Tentò riparo in Corsica, ma qui fu raggiunto da voci insistenti secondo le quali in meridione i napoletani erano insorti contro i Borbone. Perché non tentare di riprendersi quella che fu la sua corona? La spedizione partì da Ajaccio - buon segno, era la città di Napoleone - ma fu organizzata alla bell’e meglio, in tutta fretta, con appena 250 uomini alle dipendenze di Murat. Che, per inciso, non era Garibaldi. Con 250 virgulti non poté fare molto, anche perché una tempesta lo mandò fuori rotta. Lo sventurato Murat contava di sbarcare non lontano da Napoli ma si ritrovò nella più remota periferia del regno, in quel di Pizzo Calabro.

Qui, la sua miserabile spedizione fu intercettata dalla gendarmeria borbonica al comando del capitano Trentacapilli, al quale non sembrò vero poter mettere le mani sull’ex re napoleonico. Murat fu rinchiuso nel castelo di Pizzo Calabro. Fu naturalmente informato del fatto il re Ferdinando IV, che ordinò che Murat venisse giudicato da una commissione alla quale era già stato trasmesso il naturale esito del processo: la condanna dell’infelice Murat.

Il 13 ottobre 1815, Gioachino Murat affrontò il plotone di esecuzione a Pizzo Calabro. L’ex re di Napoli camminò con dignità fino al luogo dell’esecuzione. Le sue ultime parole furono un elogio alla sua amata moglie, Carolina Bonaparte, e alla sua famiglia.
Murat si riteneva un bell’uomo - ed in effetti lo era, almeno a giudicare dai suoi ritratti - e si preoccupò che i soldati del plotone di esecuzione, sparando, potessero deturpare la sua faccia. Esclamò: “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!”. Murat fu fucilato senza esitazione, ponendo fine alla sua vita e alla sua carriera in modo tragico.

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