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IL COLLEZIONISTA FOLLE
09 Febbraio 2025 - 09:00
La casa di Zaandam
PROLOGO
Nel meraviglioso mondo dell’arte, si sa, nulla si ritrova senza un piccolo aiuto dal mondo dei sogni. Non basta la fatica di archeologi, storici e collezionisti, né le ricerche negli archivi impolverati o le lenti d’ingrandimento su vecchi cataloghi d’asta. No, il destino ha una sua precisa preferenza: un’imbeccata ultraterrena, una visione notturna, magari un’apparizione sussurrata tra il sonno e la veglia. Ecco, è sempre così: un collezionista si addormenta e, oplà, il pennello di Monet o la tavolozza di Van Gogh gli appaiono fluttuanti, indicandogli la via.
Il caso del Collezionista Folle non fa eccezione. Cosa sarebbero stati gli impressionisti senza un buon sogno rivelatore? E soprattutto, che gusto ci sarebbe a ritrovare un’opera senza un piccolo mistero, una confessione postuma o un suggerimento dall’aldilà? La verità, per quanto scomoda, è questa: se non ti appare in sogno un vecchio pittore barbuto, difficilmente ti imbatterai in una tela dimenticata. Nessuno trova mai un Monet nascosto in soffitta per pura fortuna: occorre sempre un segnale, una voce sibilante nel vento notturno o almeno una tazza di tè versata su un vecchio diario di famiglia.
Dunque, ci troviamo di fronte all’ennesima scoperta che sa di profezia. Il nostro avventuroso eroe, guidato da un defunto Anton Mauve in versione onirica, svela un segreto sepolto da centocinquant’anni. Come se gli artisti del passato non avessero altro da fare che passare le notti a spifferare dettagli ai collezionisti dormienti. Ma tant’è, perché ormai il gioco è chiaro: se vuoi scovare un impressionista disperso, non servono ricerche d’archivio, ma solo un buon cuscino e una mente aperta alle suggestioni della notte.
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Qui sopra la casa di Zandaam di Monet con volto in acqua
A CACCIA DI VAN GOGH
In quel giorno a Parigi il sole picchiava forte, ma io non c’ero, non ero ancora nato. Posso però immaginare Claude Monet estrarre l’orologio dal taschino mentre impaziente aspettava il direttore della Galleria Goupil, Theo Van Gogh, il fratello di Vincent quel suo amico squinternato che amava dipingere solo la natura e per questo aveva avuto da ridire con un suo cugino, Anton Mauve, un pittore già affermato della scuola dell’Aja. Mauve lo aveva gentilmente ospitato a Zaandam, nella sua bella casa con affaccio su un bel giardino ombroso, con un bel filare d’alberi lungo il canale. Aveva acquistato per sè e per Vincent una cinquantina di tele su cui dipingere, compresi pennelli e colori. Vincent aveva portato con sé solo una sporta con i suoi indumenti di ricambio, aveva donato tutto il superfluo a una famiglia di poveri tessitori del Brenthe. Pare che avesse dipinto decine di tele ricevendo complimenti di ammirazione da Mauve, ma purtroppo una sera ebbero una divergenza di opinioni: “Parlami del muro che è sul bordo della strada, piuttosto che dei fiori che crescono oltre il muro!” gli avrebbe gridato Mauve spazientito. La reazione di Vincent Van Gogh non fu delle più normali. Prese a dare di matto, farfugliando frasi sconclusionate e quella sera non rientrò e se ne partì nottetempo per destinazione ignota, abbandonando le sue tele, forse ripromettendosi di tornare a riprendersele dopo qualche tempo.
Theo Van Gogh giunse all’appuntamento con un forte ritardo e Monet era spazientito, ma la consegna di una busta con le sue spettanze della vendita di qualche sua opera gli fece cambiare presto umore.
Davanti a una fetta di carne ribollita con patate al forno, Theo mise sul piatto la sua proposta: avrebbe riconosciuto il rimborso delle spese di viaggio da Parigi a Zaandam se Monet fosse riuscito a recuperare le tele dipinte da Vincent e abbandonate a Zaandam. Al suo ritorno a Parigi avrebbero festeggiato e magari organizzato una mostra espositiva per Vincent e per Monet. Furono d’accordo senza l’oste: il destino fu loro avverso. Dei quadri di van Gogh a Zaandam, Mauve finse di non saperne niente.
Monet gli chiese il permesso di dipingere la sua bella casa, riprendendola dall’al di là del canale con l’intenzione di donarla a Theo affinché egli la donasse a sua volta a Vincent. Un giro avventuroso, ma alla fine la bella tavoletta di cm. 30x25 arrivò ad Arles e Vincent, memore del suo soggiorno a Zaandam, la appese al muro sopra al suo letto, proprio sotto il ritratto di sua madre.
Anche a Vincent rimase insoluta la questione di dove fossero finite le decine di tele dipinte a casa di Mauve.

Qui sopra, la "Camera di Van Gogh" ad Arles
La risposta fu resa nota 150 anni dopo dal Collezionista Folle e visionario di Torino, Umberto Joackim Barbera, il quale ebbe una straordinaria intuizione notturna. Gli apparve in sogno Anton Mauve, che mai aveva conosciuto se non dal suo cartoncino funerario pubblicato di profilo sui libri d’arte. Gli apparve voltandosi verso di lui, rivolgendogli la parola: “Ascoltami, e se potrai pubblicare ciò che ti dico, ne avrai anche tu un vantaggio. Non posso tenere solo per me il ricordo di dove finirono le tele di Vincent van Gogh. Prometti di farlo sapere al mondo?” … “Come no, ma che vantaggio ne avrei ?“. Mauve sorrise : “Ritroverai la tavoletta di Monet che Vincent appese nella sua camera, nella casa gialla di Arles. Allora facciamo questo patto?” …. “Proviamo se mai accadesse ne sarei felice, mi dica pure Signor Mauve”. La voce di Anton Mauve fu chiara e forte: “Lo confesso: le ho utilizzate io per dipingerci sopra!”. Poi svanì e tutto si avverò.
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