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La rivincita dei falsi: perché la Gen Z ama i 'dupe' (e non se ne vergogna)

Dai social agli e-commerce, il boom delle imitazioni low cost ridefinisce il lusso: status symbol, sostenibilità e ribellione contro i prezzi folli

La rivincita dei falsi: perché la Gen Z ama i 'dupe' (e non se ne vergogna)

Un tempo si nascondevano in fondo all’armadio. Oggi si mostrano fieramente su TikTok. I “dupe”, ovvero le imitazioni più o meno esplicite di capi, profumi e accessori di lusso, sono diventati un fenomeno culturale prima ancora che commerciale. In una società che ha abbattuto lo stigma del falso, l’estetica della copia – se fatta bene – vale quanto (se non più di) quella dell’originale.

La parola magica è proprio dupe, abbreviazione di duplicate, che con un colpo di vernice lessicale ha reso accettabile, desiderabile, perfino cool ciò che un tempo era bollato come volgare tarocco. C’è chi la chiama ribellione, chi la definisce sopravvivenza glamour in un’economia ostile. Ma il dato è certo: oggi i social, TikTok in testa, sono invasi da tutorial, haul e classifiche con titoli tipo “i migliori dupe del mese”, “dupe better than the original”, e così via. È l’apoteosi del lusso democratico – o meglio, della sua illusione.

La vera rivoluzione non è l’esistenza delle copie, ma il loro status sociale. Una volta chi comprava una borsa finta lo faceva sperando che nessuno se ne accorgesse. Oggi è l’opposto: trovare una copia “quasi perfetta” è motivo d’orgoglio. È un atto di furbizia e un gesto di critica implicita al sistema dei prezzi fuori controllo del lusso.

D’altronde, basta guardare i numeri: nel solo 2024, il mercato del lusso ha perso circa 50 milioni di consumatori. Prezzi impazziti (una borsa Chanel è quasi raddoppiata), stipendi fermi, sogni identici. Risultato? I consumatori si sono adattati. Hanno imparato a desiderare diversamente. E anche a comprare con astuzia.

Non è più contraffazione, è content

La differenza tra dupe e fake sta tutta nella consapevolezza. I dupe non cercano di spacciarsi per originali: non falsificano etichette, non imitano loghi. Sono "ispirati a", non "spacciati per". E questo piccolo, grande dettaglio li ha resi accettabili, soprattutto tra i giovani.

La Gen Z, poi, ha trasformato questa pratica in contenuto virale. Perché il dupe non è solo un oggetto: è un racconto. È l’arte di stanare il simile per meno, di battere il sistema con stile. E in una generazione abituata a muoversi tra inflazione, affitti impossibili e precarietà cronica, è anche una forma sottile di rivincita.

Non tutti i dupe però sono creati uguali. Se Shein, Temu e AliExpress offrono versioni scadenti a pochi spiccioli, piattaforme come Quince hanno alzato l’asticella: stessi look, qualità migliore, prezzi più onesti. Un esempio? La “giacca-sciarpa” di Toteme (oltre 1000 euro) trova la sua “replica” in lana a 200 dollari su Quince. Non esattamente low cost, ma senz’altro più accessibile. E il mercato ha risposto: fatturato quasi triplicato in un anno.

Questo però solleva anche una questione scomoda. Perché se da un lato i dupe offrono una via d’uscita ai costi del lusso, dall’altro pongono problemi etici non indifferenti: sostenibilità ambientale, equità del lavoro, creatività rubata a piccoli marchi indipendenti. E infatti le prime a lamentarsi non sono le multinazionali, ma le stiliste emergenti come Cassey Ho, che si è vista copiare 471 volte un suo capo in pochi mesi.

Il paradosso della Gen Z è tutto qui: vuole salvare il pianeta, ma anche essere alla moda 24 ore su 24. È sedotta dal minimalismo etico, ma pure dalla dopamine dressing. E in questo conflitto quotidiano tra coscienza e consumo, il dupe si inserisce come compromesso perfetto. Un modo per “essere” ciò che si desidera, senza pagarne il prezzo pieno – né economico, né sociale. Eppure, qualcosa si muove. Alcuni marchi stanno rispondendo. Lululemon ha regalato leggings originali a chi portava le imitazioni. Olaplex ha fatto promozione… ai propri “falsi” su TikTok, per poi svelare l’inganno e affermare che “niente batte l’originale”.

Sarà vero? Per ora no. Per ora, la febbre dei dupe continua. Cresce su TikTok, esplode su Reddit, si insinua persino nelle ricerche Google. È il nuovo status symbol dei non-status symbol. Una rivoluzione soft, a metà tra capitalismo di resistenza e teatro dell’apparenza.
Che lo si ami o lo si disprezzi, una cosa è certa: il dupe è qui per restare.

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