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Psicologia audiovisiva

Il dolore che consola: perché amiamo le storie di trauma

Il sesto episodio di 'The Last of Us' che fa del dolore un linguaggio universale

Il dolore che consola: perché amiamo le storie di trauma

Nella mattina di lunedì 19 maggio, è uscita sulla piattaforma HBO Max la sesta puntata di The Last of Us, la serie ispirata all'omonimo videogioco con protagonisti Pedro Pascal e Bella Ramsey. Un sesto episodio che non ha lasciato nessuno con gli occhi asciutti.

L'episodio è una serie di flashback prima di arrivare al presente in cui Ellie (Ramsey) è alla ricerca dell'assassina di Joel (Pascal), Abby (interpretata da Kaitlyn Dever). Un concentrato di ricordi di Ellie e di Joel stesso in cui vediamo l'infanzia di Joel e del fratello Tommy i primi anni di vita a Jackson, nella città costruita dai sopravvissuti agli zombie, fino al confronto la sera prima della tragica morte di Joel, in cui vediamo Ellie che gli rinfaccia di averla salvata dalla banda dei Fireflies quando poteva, attraverso il suo sacrificio, donare al mondo intero la cura contro il contagio. Un episodio che è una ferita aperta, sia per i fan del videogioco che per coloro che hanno conosciuto l'universo di The Last of Us attraverso la serie. 

Ma perché ci colpiscono così tanto queste storie? Cosa c’è, oggi, nel trauma raccontato che ci attrae e ci consola allo stesso tempo?

Perché cerchiamo il trauma nelle storie?

Una volta si diceva che le storie servivano a sognare. Oggi sempre più spesso servono a sopravvivere. Nei libri, nei film, nelle serie, nei post social, il trauma è diventato un linguaggio comune. Non ci limitiamo più a raccontare personaggi forti: ci interessano quelli rotti, quelli che non hanno risolto, quelli che portano le cicatrici in superficie. Come Ellie. Come BoJack. Come Rue di Euphoria, o Charlie di The Whale.

In fondo, il trauma ci attira non per la sua drammaticità, ma perché ci fa sentire meno soli nella nostra confusione emotiva. Non ci offre risposte, ma ci fa compagnia. Racconta qualcosa che molti non riescono ancora a dire, ma che sentono nel profondo.

Guardare il dolore degli altri è diventato un modo per legittimare il nostro. I personaggi che amiamo oggi non sono eroi perfetti: sono persone che vacillano, che cadono, che sbagliano. E proprio per questo li amiamo. Perché ci mostrano che si può essere degni anche nel dolore.

C’è qualcosa di profondamente umano in questo: le storie di trauma ci offrono uno spazio dove non essere all’altezza è ammesso. Dove possiamo respirare. Sentire. Ricordare. Forse, anche guarire un po’.

Quando il trauma diventa vetrina

Ma non tutto è liberazione. C’è anche il rischio che il trauma diventi una performance. Che il dolore si trasformi in contenuto. Sui social si parla di “trauma dumping”, ma anche di come alcune storie – persino vere – vengano raccontate solo per ottenere attenzione, empatia, ascolto.

Il problema non è il racconto in sé. È cosa ci facciamo con quel racconto. Se lo usiamo per capirci meglio, o solo per mostrarci fragili perché oggi è “di moda esserlo”. Il trauma è sacro. Ma solo se è vero. Solo se è attraversato.

E dopo il racconto, cosa resta?

Forse è questo il punto. Raccontare una ferita è un atto potente. Ma non basta mostrarla per guarire. La vera forza sta in ciò che viene dopo: nel tempo che ci prendiamo per ascoltare, per integrare, per non correre via. Perché il trauma può essere una porta, ma solo se si ha il coraggio di aprirla davvero. E di non attraversarla da soli.

Così, nell’episodio di The Last of Us, Ellie guarda in faccia il dolore. Non lo risolve. Non lo capisce. Ma lo tiene con sé. E forse è proprio questo il messaggio più profondo: alcune ferite non si chiudono. Ma si raccontano. E raccontandole, si sopravvive.

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