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Lavoro
22 Maggio 2025 - 02:30
Negli ultimi anni – e con particolare forza negli ultimi giorni – è tornato a circolare un allarme diffuso tra i giovani: “Noi non andremo mai in pensione”. Una frase che suona quasi come una condanna, un’amara constatazione su cui molti under 35 sembrano ormai aver perso ogni illusione. Eppure, pur partendo da dati e previsioni reali, la questione è meno definitiva di quanto sembri. Il futuro pensionistico dei giovani italiani è fragile, ma non irrimediabilmente compromesso. Cerchiamo di fare chiarezza.
Oggi l’età minima per accedere alla pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni. Secondo le previsioni ufficiali della Ragioneria dello Stato e dell’Istat, però, nei prossimi decenni questa soglia è destinata ad alzarsi gradualmente: 68 anni nel 2039, 69 nel 2051, fino a 70 anni e otto mesi nel 2084.
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Questo vuol dire che chi è nato tra il 1990 e il 2000 potrebbe trovarsi a lavorare fino ai 70 anni o oltre, a meno che non cambi qualcosa nelle regole o nella struttura del sistema. Il meccanismo che regola l’età pensionabile è infatti legato all’aspettativa di vita: più si vive a lungo, più si dovrà lavorare.
Il vero nodo, però, non è tanto quando si andrà in pensione, ma con quale assegno. Il sistema pensionistico italiano è passato nel 1996 dal modello retributivo – che calcolava la pensione sulla base degli ultimi stipendi – a quello contributivo, che si basa invece su quanto un lavoratore riesce a versare durante l’intera carriera.
Un modello considerato più sostenibile per le casse pubbliche, ma che scarica il rischio sulle spalle dei singoli lavoratori. Se il mercato del lavoro non garantisce stabilità e salari dignitosi, il risultato è un assegno pensionistico insufficiente a mantenere una vita decorosa in vecchiaia.
Nel contesto attuale, molti giovani iniziano a lavorare tardi – dopo lunghi percorsi di studio e stage spesso non retribuiti – e faticano a trovare occupazioni stabili. Contratti a tempo determinato, partite IVA, collaborazioni occasionali: la discontinuità contributiva è la norma, non l’eccezione.
Secondo l’OCSE, una lavoratrice con un’interruzione decennale nella sua carriera riceverà il 27% in meno rispetto a una collega con carriera continua. In Italia, dove lo stipendio medio netto di un under 35 si aggira attorno ai 1.300 euro al mese (con punte molto più basse al Sud), accumulare contributi sufficienti diventa una vera impresa.
Il confronto con le generazioni precedenti è impietoso. I baby boomer, nati tra gli anni ’50 e ’60, hanno potuto godere di carriere lineari, stabilità lavorativa e un sistema pensionistico generoso. Molti sono andati in pensione tra i 58 e i 65 anni, con assegni elevati. I giovani di oggi, invece, si muovono in uno scenario fatto di incertezze, precarietà e orizzonti sempre più lontani.
Le simulazioni dell’INPS non lasciano spazio a dubbi: i lavoratori nati dopo il 1996, in pieno sistema contributivo, potrebbero avere un tasso di sostituzione del 50% – ovvero la pensione sarà la metà dell’ultima retribuzione. Questo, però, solo se si lavora per almeno 40 anni in modo continuativo. Un’eventualità che, oggi, appare difficile per molti.
In questo scenario preoccupante, non tutto è perduto, ma serve un cambio di rotta. Da una parte, è importante che i giovani si informino, simulino la propria pensione sul sito dell’INPS, valutino forme di previdenza integrativa come i fondi pensione (per quanto spesso economicamente inaccessibili). Dall’altra, è essenziale che la politica affronti la questione con riforme strutturali. Servono:
Tutele contributive universali anche per chi lavora in modo discontinuo
Un salario minimo legale che garantisca una base previdenziale dignitosa
Incentivi concreti alla previdenza complementare
Strumenti di solidarietà intergenerazionale, per riequilibrare il peso che oggi grava quasi tutto sulle nuove generazioni
https://torinocronaca.it/news/home/509623/piemonte-per-i-giovani-unprogetto-triennale-che-coinvolge-circa-1-800-ragazzi-tra-i-15-e-i-34-anni.html
È comprensibile che i giovani guardino al futuro con preoccupazione. Il rischio di una “non pensione” esiste, ma non è inevitabile. Le previsioni si basano su leggi e condizioni attuali, che nei prossimi decenni potrebbero (e dovrebbero) cambiare.
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