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28 Maggio 2025 - 22:51
Nel cuore dell’Europa che corre, l’Italia resta ferma. O peggio: inciampa su se stessa. Mentre il mondo investe in competenze e formazione, noi perdiamo per strada i nostri giovani. Il fenomeno dei NEET – quei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non seguono percorsi di formazione – continua a essere uno dei grandi fallimenti silenziosi del nostro Paese. E il silenzio, in questo caso, fa più rumore di mille proclami.
Nel 2024 i NEET rappresentano il 15,2% della popolazione giovanile italiana. In calo, certo. Ma ancora ben al di sopra della media europea dell’11%. Peggio di noi solo la Romania. Ma è una magra consolazione. Parliamo di più di un milione di ragazzi e ragazze, spesso invisibili alle statistiche ufficiali, ma presenti – eccome – nel tessuto sociale, dove vivono una condizione di marginalità che alimenta sfiducia, rabbia, disincanto.
Il percorso che porta un giovane a diventare NEET non è improvviso, né inaspettato. È una china lenta, spesso comincia tra i banchi di scuola. Secondo i dati del 2023, il 10,5% degli studenti tra i 18 e i 24 anni ha lasciato gli studi dopo la terza media. Un abbandono che, nella maggior parte dei casi, non è una scelta ma una resa. Alla povertà, alla mancanza di servizi, all’assenza di modelli positivi. È la dispersione scolastica, l’anticamera dell’inattività. Un segnale d’allarme che da anni risuona nei corridoi delle scuole e nei rapporti ministeriali, senza che nessuno lo trasformi in priorità politica.
Il problema è nazionale, ma ha un accento marcato: quello del Sud. In regioni come Sicilia, Calabria e Campania, il tasso di NEET supera stabilmente il 25%. Una cifra da brividi, che racconta di territori in cui scuola e lavoro sono spesso miraggi. Ma la mappa della crisi attraversa anche le periferie urbane del Centro-Nord, dove si addensano nuove forme di esclusione giovanile, meno visibili ma altrettanto gravi.
Ma anche chi resta nel sistema educativo si scontra con un’altra barriera: quella del lavoro. Un mercato rigido, frammentato, incapace di assorbire le nuove generazioni. L’alternanza scuola-lavoro resta sulla carta, gli apprendistati qualificanti sono eccezioni e non regole, l’università non dialoga con le imprese. Il risultato? Giovani sovraqualificati ma inoccupati, demotivati, pronti a partire o a lasciarsi andare.
“Garanzia Giovani”, “Pnrr”, “Fondi contro la dispersione”: negli ultimi dieci anni non sono mancate le iniziative. Ma il tratto comune è la frammentazione. Progetti isolati, spesso calati dall’alto, privi di continuità. Manca una regia nazionale. E soprattutto manca una visione. Servirebbe un patto educativo strutturato, che metta insieme scuola, famiglia, imprese, terzo settore. Un’alleanza stabile, non spot.
Nel confronto europeo, l’Italia continua a occupare i fanalini di coda. Mentre Germania e paesi scandinavi investono su percorsi tecnici e professionalizzanti, noi continuiamo a proporre un modello scolastico rigido, trasmissivo, sempre più distante dalla realtà. E intanto il tempo passa. E con lui passano le occasioni.
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