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Alzheimer, il futuro della diagnosi è nel sangue: la svolta è vicina

Un nuovo test approvato negli Stati Uniti potrebbe rendere la diagnosi precoce dell’Alzheimer più semplice e accessibile

Alzheimer, il futuro della diagnosi è nel sangue: la svolta è vicina

Diagnosticare l’Alzheimer oggi è ancora un processo complesso, costoso e spesso invasivo. Tecniche come la puntura lombare per analizzare il liquido cerebrospinale o la PET (tomografia a emissioni di positroni) non sono sempre facilmente accessibili, né alla portata di tutti. Ma qualcosa potrebbe presto cambiare: grazie ai progressi nella ricerca sui biomarcatori ematici, sarà forse possibile individuare la malattia con un semplice prelievo di sangue, anni prima dell’insorgenza dei sintomi.

Un primo importante passo in questa direzione è arrivato dagli Stati Uniti, dove la Food and Drug Administration (FDA) ha autorizzato l’utilizzo clinico di un test sviluppato dall’azienda giapponese Fujirebio. Il test misura nel sangue la presenza di due proteine associate all’accumulo di placche nel cervello, uno dei tratti distintivi dell’Alzheimer. Le placche possono comparire anni prima dei sintomi, e proprio per questo il test rappresenta una potenziale rivoluzione nella diagnosi precoce.

Tuttavia, il test non è ancora utilizzabile su larga scala, ma soltanto in ambito clinico, su pazienti sintomatici con almeno 55 anni di età. Secondo molti specialisti, tra cui la neurologa Federica Agosta dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, la novità è comunque significativa: «Una diagnosi biologica più accessibile permetterà di reclutare con maggiore efficienza i pazienti nei trial clinici, in fase più precoce e con maggiore accuratezza rispetto alla diagnosi clinica tradizionale».

L’arrivo di test meno invasivi e più diffusi pone però questioni etiche e psicologiche complesse. Cosa succede quando si può conoscere con anni di anticipo la possibilità di ammalarsi di una patologia per la quale, al momento, non esiste una cura definitiva?

Un recente studio pubblicato sulla rivista JAMA ha coinvolto 274 persone sopra i 65 anni, asintomatiche ma potenzialmente interessate a conoscere il proprio rischio di Alzheimer. Il risultato è stato sorprendente: il 40% ha scelto di non conoscere il risultato, pur avendo inizialmente espresso interesse. Le ragioni principali? La previsione non dava certezze assolute (con un’accuratezza dell’82-84%) e molti partecipanti l’hanno percepita come un peso psicologico difficile da sostenere.

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