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Perché ci rannicchiamo quando piangiamo? La risposta della scienza

Secondo la University of North Carolina, quel gesto che fai quando piangi serve a proteggerti: ecco perché il corpo lo fa da solo

Perché ci rannicchiamo quando piangiamo? La risposta della scienza

Succede quasi sempre, anche senza pensarci. Le lacrime iniziano a scendere, il respiro si fa corto, e all’improvviso il corpo si piega: le ginocchia al petto, le braccia che ci stringono, la testa che si abbassa. È la posizione fetale, un gesto istintivo che ritorna nei momenti di fragilità. Ma perché lo facciamo?

La risposta arriva da più campi della ricerca: neuroscienze, psicologia dello sviluppo e studi sul comportamento umano. E tutti convergono su un punto: quella postura non è casuale, né debole. È un riflesso profondo di autoprotezione e autoregolazione, che affonda le sue radici nei primissimi stadi della vita.

Secondo il neurofisiologo Stephen W. Porges, autore della nota Polyvagal Theory (2011), nei momenti di stress emotivo intenso entra in gioco il sistema nervoso parasimpatico, e in particolare il nervo vago dorsale. Questo circuito induce uno stato di “congelamento” o chiusura: il corpo rallenta, si richiude, cerca sicurezza riducendo l’esposizione. È lo stesso sistema che ci fa abbassare lo sguardo, curvare le spalle o rannicchiarci in posizione fetale quando piangiamo. Un comportamento primitivo ma efficace, che ci aiuta a regolare emozioni e sopravvivere psicologicamente.

La psicologia dello sviluppo aggiunge un altro tassello. Lo psicoanalista britannico John Bowlby, con la sua Attachment Theory (1969), ha dimostrato che nei momenti di sofferenza emotiva gli esseri umani tendono a ricorrere a comportamenti regressivi, simili a quelli dell’infanzia: cercare protezione, rannicchiarsi, dondolarsi. La posizione fetale è una sorta di “rifugio corporeo” che riproduce la sicurezza del grembo materno.

Anche gli studi sul pianto confermano questo legame tra postura e emozione. Lo psicologo olandese Ad Vingerhoets, uno dei massimi esperti mondiali in materia, ha esplorato per oltre vent’anni il significato delle lacrime umane. Secondo lui, il pianto è una strategia evolutiva per segnalare bisogno, attivare empatia e richiamare supporto sociale. In uno studio pubblicato su Cognition and Emotion (2013), Vingerhoets osserva come le persone che piangono tendano istintivamente ad assumere posizioni chiuse, raccolte, proprio per stimolare una risposta di conforto negli altri.

Sul piano neurobiologico, infine, le lacrime attivano una cascata di reazioni che coinvolgono endorfine, ossitocina e una riduzione del cortisolo, l’ormone dello stress. È stato dimostrato, ad esempio, da una revisione condotta dallo stesso Vingerhoets nel 2014, che piangere — soprattutto se in contesti sicuri — produce una regolazione fisiologica positiva, e la posizione fetale sembra favorire questa autoregolazione, stimolando sensazioni di sicurezza e calma.

E non è un caso se, in tempi recenti, si comincia a dare spazio a pratiche che legittimano il pianto come forma di cura. In Giappone, a Tokyo, l’ex insegnante Hidefumi Yoshida ha aperto il Tears and Travel Café, uno spazio dove si impara — letteralmente — a lasciarsi andare. Conosciuto come namida sensei, il “maestro delle lacrime”, Yoshida accompagna i partecipanti attraverso racconti e immagini commoventi, invitandoli a piangere e a trovare sollievo. E spesso, racconta, le persone si rannicchiano su se stesse mentre piangono, proprio come se il corpo sapesse esattamente cosa fare per proteggersi.

In conclusione, la posizione fetale che assumiamo quando piangiamo non è un segno di debolezza, ma un gesto di saggezza corporea. È il nostro sistema nervoso che ci riporta, per un attimo, in un luogo sicuro. Un abbraccio involontario a noi stessi, per dirci che possiamo crollare — e poi ricomporci.

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