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Politica internazionale
09 Giugno 2025 - 15:50
Negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito sulla posizione legale di Elon Musk negli Stati Uniti, a seguito di dichiarazioni rilasciate da Steve Bannon, ex consigliere del presidente Donald Trump. Bannon ha affermato al New York Times di aver suggerito a Trump di avviare un’indagine formale sullo status di immigrazione dell’imprenditore, ipotizzando perfino una possibile espulsione dal Paese.
Secondo alcuni giuristi, l’ipotesi di una revoca della cittadinanza americana per Musk potrebbe essere teoricamente fondata, qualora emergessero prove che abbia mentito durante il processo di immigrazione. Le normative statunitensi prevedono infatti la possibilità di revoca della cittadinanza se questa è stata ottenuta tramite false dichiarazioni o l’occultamento di informazioni materiali.
Nato in Sudafrica, Musk ha successivamente vissuto in Canada, per poi trasferirsi negli Stati Uniti dove ha acquisito la cittadinanza americana. Secondo quanto riportato dal Washington Post, nel 1995 Musk fu ammesso alla Stanford University, ma non frequentò i corsi, iniziando invece a lavorare per una startup tecnologica, Zip2. All’epoca, secondo quanto dichiarato da Derek Proudian, membro del consiglio di Zip2, Musk e il fratello Kimbal non avevano un’autorizzazione formale a lavorare nel Paese.
In un’email del 2005, utilizzata come prova in una causa civile, Musk aveva scritto di aver fatto domanda a Stanford perché non avrebbe avuto “alcun diritto a restare nel paese” in assenza di iscrizione a un percorso di studio.
Musk ha negato di aver mai lavorato illegalmente, dichiarando di essere stato inizialmente titolare di un visto J-1 (per studenti) e successivamente di un visto H-1B (per lavoratori specializzati). Tuttavia, secondo quanto riferito da esperti consultati da Wired US, un visto studentesco decadrebbe nel momento in cui il titolare non frequenta effettivamente un corso di studio, rendendo illegale ogni attività lavorativa in quel periodo.
Il professore Stephen Yale-Loehr della Cornell Law School ha affermato che se Musk avesse effettivamente lavorato senza autorizzazione e successivamente mentito al riguardo nel processo per ottenere la cittadinanza, la sua naturalizzazione potrebbe essere contestata. La legge americana prevede infatti che chi ottiene la cittadinanza “occultando un fatto materiale o facendo dichiarazioni false in modo intenzionale” possa essere sottoposto a procedura di denaturalizzazione.
Anche secondo la professoressa Amanda Frost, docente di diritto dell’immigrazione presso l’Università della Virginia, l’aver lavorato senza permesso può costituire un ostacolo alla concessione della green card, e quindi anche della cittadinanza.
Secondo l’avvocato specializzato in immigrazione Ira Kurzban, durante il processo di naturalizzazione viene richiesto esplicitamente ai candidati se abbiano mai lavorato illegalmente nel paese. Una dichiarazione falsa in questa fase può avere implicazioni penali, compresa una pena detentiva fino a cinque anni.
Tuttavia, Greg Siskind, anch’egli esperto in diritto dell’immigrazione, ha precisato che è difficile dimostrare che un’eventuale omissione avrebbe necessariamente impedito il rilascio della cittadinanza. Ha inoltre ricordato che simili violazioni, se datate, vengono raramente perseguite in modo severo.
Nel corso della presidenza Trump, il governo ha incrementato le attività legate alla revoca della cittadinanza. Nel 2018, l’USCIS ha creato un ufficio specifico per indagare su casi di denaturalizzazione, analizzando migliaia di fascicoli e segnalando numerosi casi al Dipartimento di Giustizia.
Anche qualora si riscontrassero elementi di illegittimità, il procedimento non sarebbe automatico: la decisione finale spetterebbe a un procuratore federale, che dovrebbe valutare se intraprendere un’azione legale.
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