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Lo studio
24 Giugno 2025 - 09:10
Usiamo l’intelligenza artificiale per tutto: per preparare una riunione, organizzare la spesa, scegliere un film o pianificare un weekend. Ma se il nostro rapporto quotidiano con i chatbot sembra innocuo, i dati suggeriscono altro. L’IA non sta solo rispondendo alle nostre domande: sta cambiando il modo in cui parliamo. E forse, dicono alcuni, sta cominciando a pensare per noi.
Secondo una ricerca del Max Planck Institute for Human Development, che ha analizzato oltre 280.000 video accademici su YouTube, termini come “meticoloso”, “approfondire”, “regno” ed “esperto” sono aumentati fino al 51% rispetto a tre anni fa. Tutti vocaboli ricorrenti in ChatGPT. Coincidenze? Per nulla. Già uno studio della Stanford University aveva individuato questi termini come marchi di fabbrica del linguaggio generato dall’IA.
“Stiamo interiorizzando il vocabolario dell’intelligenza artificiale nella comunicazione quotidiana”, spiega Hiromu Yakura, autore principale dello studio. “Se fino a oggi ci siamo chiesti come rendere l’IA più umana, i nostri dati suggeriscono che sta accadendo il contrario: sono gli esseri umani ad adattarsi al linguaggio delle macchine”. Ma qui il nodo diventa filosofico. Come scriveva Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio indicano i limiti del mio mondo”. Le parole non sono meri strumenti comunicativi: sono strutture cognitive. Cambiare il linguaggio significa cambiare anche come e cosa pensiamo.
Una parola, più delle altre, è diventata simbolo del cambiamento: “approfondire”. Per Levin Brinkmann, co-autore dello studio, si tratta di una “filigrana verbale”, un’impronta che rivela la penetrazione silenziosa dei modelli IA nei nostri dialoghi. E le conseguenze non sono solo linguistiche. Il MIT Media Lab ha dimostrato che un uso intensivo dei chatbot per scrivere testi può ridurre l’attività cognitiva e la capacità di apprendere. L’IA, insomma, potrebbe renderci meno reattivi, meno critici, meno creativi.
Secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf, il linguaggio plasma la percezione della realtà. Se adottiamo quello delle macchine, potremmo iniziare a pensare come loro. E visto che le IA non comprendono davvero ciò che dicono, ma ricombinano parole in modo statistico, il pericolo è che si affermi una forma di pensiero superficiale, standardizzato, meno umano. Non si tratta di nostalgia per le parole perdute. Ma di un’allerta: la rivoluzione dell’IA non sta solo nei dati, nei chip o negli algoritmi.
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