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03 Luglio 2025 - 20:45
Zizzona di Battipaglia
L’Italia, si sa, è la patria della buona cucina, ma anche della fantasia linguistica. Soprattutto quando si tratta di nomi. Dietro ricette regionali squisite si nascondono appellativi espliciti, ironici o maliziosi, figli di una tradizione orale fatta di doppi sensi e saggezza popolare. Dalla pasta alla puttanesca alle sise delle monache, ecco un viaggio tra i piatti più “sconci” della nostra tavola.
Regina indiscussa è la pasta alla puttanesca, tipica di Napoli e del Lazio. Spaghetti con olive nere, capperi, acciughe e pomodoro, il cui nome vanta più teorie: da quella della casa di appuntamenti romana a cui un oste preparava la cena, al racconto partenopeo secondo cui nacque nei Quartieri Spagnoli per rifocillare i clienti in fretta. O ancora, la leggenda di Sandro Petti, ristoratore ischitano che improvvisò il piatto su richiesta di “una putt*nata qualsiasi”. La ricetta è diventata anche un inaspettato esempio strategico citato dalla commissaria europea Hadja Lahbib per la gestione delle emergenze.
Ma non è l’unico piatto a evocare corna e tradimenti. La pasta dei cornuti (o dei becchi), burro e parmigiano, si dice fosse servita dalle mogli infedeli ai mariti ignari per guadagnare tempo con l’amante. I c*zzetti d’angelo, dalla forma fallica, ribaltano il nome dei capelli d’angelo. E i pisarei piacentini, piccoli gnocchi, ricordano nel dialetto locale un pene.
Tra i salumi si fanno notare i c*glioni di mulo abruzzesi e le palle del nonno di Norcia, entrambi dal nome eloquente. In Sicilia, i celebri cazzilli di patate, fritti e allungati, sono lo street food più piccante per forma e gusto. Più nobile il brandacujun ligure, stoccafisso con patate, il cui nome pare derivi dal gesto di mescolare (brandare) assegnato al “cujun” del gruppo.
Ma le allusioni arrivano anche nel mondo dei formaggi. Mozzarella di bufala dalla forma generosa, la Zizzona prende il nome dalla parola dialettale zizza, che significa mammella. Simbolo di fertilità e abbondanza, è uno dei prodotti più gustosi (e allusivi) della tradizione campana.
Anche i dolci non sono da meno. Le minni di Virgini, nate in un convento di Sambuca nel 1725, hanno forma mammellare e ripieno di biancomangiare e cioccolato. La forma, ispirata alle colline agrigentine, fu ribattezzata dal popolo con malizia. Simili sono le minne di Sant’Agata e le sise delle monache abruzzesi, che richiamano le astuzie monacali per dissimulare le forme.
In fondo, più che scandalo, questa cucina fa sorridere e racconta, con ironia, l’Italia delle tradizioni popolari, dei proverbi, delle battute da osteria. Una cucina che, anche nel nome, non si prende mai troppo sul serio.
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