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Cinema e TV

Il reboot di 'Una Notte al Museo' è l’ennesima mossa disperata di Hollywood

L'inutile ciclo dei reboot che nessuno vuole vedere più

Il reboot di 'Una Notte al Museo' è l’ennesima mossa disperata di Hollywood

"Siamo nella era dei reboot", aveva scritto un utente di Instagram al leggere la notizia che Una Notte al Museo, la saga di film diretti da Shawn Levy con protagonisti Ben Stiller e Robin Williams, vedrà un reboot presso la 20th Century Fox. La testata giornalistica cinematografica Deadline ha riportato che sia Levy che Dan Levine, produttore dei film, saranno alla produzione mentre Tripper Clancy (I Am Not Okay With This) sarà alla sceneggiatura. Dovremo essere contenti di questa notizia? C'è solo una risposta che è quella giusta ed è no.

Il primo film di Una Notte Al Museo era uscito nel 2006 ed era diventato un fenomeno globale del cinema d'azione con i suoi sequel La Fuga e Il Segreto del Faraone. Poi la Disney ha tentato nel 2022 un sequel animato (La vendetta di Kahmunrah) ma nessuno se ne ricorda e già doveva far comprendere che i film creati nei primi anni 2000 andavano già bene così, eppure i piani alti dell'industria (Disney) insistono e pressano su dei reboot che sono, in una parola, inutili.

E non si parla solo di Disney: la tendenza al reboot sta infestando l’intera industria cinematografica, con risultati che raramente giustificano l’operazione. Hollywood sembra soffrire di una crisi creativa ormai cronica, affidandosi ai ricordi nostalgici degli spettatori piuttosto che investire su idee nuove. Il problema? Questi reboot non solo spesso falliscono economicamente, ma vengono accolti da pubblico e critica con un misto di indifferenza e frustrazione.

Prendiamo il caso di Ghostbusters del 2016, il reboot al femminile del celebre franchise anni ’80. Nonostante un cast di talento e un budget di 144 milioni di dollari, il film è stato un flop commerciale, incassando poco più di 229 milioni a livello globale – una cifra appena sufficiente a coprire i costi di produzione e marketing. La critica si è divisa, ma il pubblico ha reagito con ostilità, tra accuse di operazione cinica e mancanza di rispetto per il materiale originale.

Altro esempio è The Mummy del 2017, con Tom Cruise, che avrebbe dovuto inaugurare il cosiddetto “Dark Universe” della Universal. Il film si è rivelato un disastro sotto ogni punto di vista: critiche pessime, incassi deludenti (409 milioni a fronte di un budget di circa 195 milioni) e cancellazione immediata di tutti gli altri progetti collegati. L’universo condiviso è imploso prima ancora di iniziare.

Anche Charlie’s Angels del 2019, reboot del reboot, ha subito un destino simile. Promosso come una rivisitazione più “moderna” e “femminista”, il film non ha trovato il suo pubblico, incassando solo 73 milioni di dollari a fronte di un budget di 55. L’ennesima dimostrazione che non basta un cambio di look per giustificare un’operazione commerciale.

E che dire di RoboCop (2014) o Total Recall (2012)? Entrambi remake di cult amati degli anni ’80 e ’90, entrambi accolti con freddezza tanto al botteghino quanto dalla critica. Anonimi, privi di identità propria, troppo patinati per risultare sovversivi come gli originali, questi film sono scivolati nell’oblio con la stessa rapidità con cui erano stati annunciati.

Questi esempi dovrebbero bastare a dimostrare che non è sufficiente appiccicare un nome familiare a un nuovo prodotto per garantirne il successo. Il pubblico non è stupido, e la nostalgia non è una strategia commerciale infallibile. La verità è che molti reboot sono concepiti più per ragioni economiche che artistiche, e il risultato è spesso un cinema senz’anima, derivativo e stanco.

Hollywood dovrebbe forse interrogarsi sul perché il pubblico stia perdendo interesse. Forse perché ha capito che certi film appartengono a un’epoca precisa, e che certi personaggi, per quanto iconici, non hanno bisogno di tornare a ogni costo. Se il cinema vuole davvero evolvere, deve avere il coraggio di creare qualcosa di nuovo – non solo rianimare i morti.

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