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Ma perché costruiamo robot che sembrano umani?

Per costruire fiducia, un legame affettivo, o è l'uomo che gioca a fare Dio? Lo spiega Lucy Suchman

Ma perché costruiamo robot che sembrano umani?

Un robot umanoide, immagine di repertorio

È davvero necessario che i robot abbiano forma e comportamenti umani? Alcuni sostengono che questo aiuti l’utente a sentirsi più a proprio agio, creando fiducia e credibilità. Altri vedono un desiderio più profondo: ricreare l’essere umano, come una sfida tecnica e simbolica. Tuttavia, anche i robot più sofisticati non possiedono l’autonomia che caratterizza l’agire umano: agiscono seguendo istruzioni e algoritmi.

Nel saggio Human-Machine Reconfigurations, Lucy Suchman indaga cosa significhi essere “umani” nelle tecnologie robotiche e nell’intelligenza artificiale, e quali rappresentazioni culturali influenzino queste scelte. Secondo l’autrice, per risultare umani, i robot devono possedere tre elementi: embodiment (cioè un corpo per muoversi nell’ambiente fisico), emozione (per interagire in modo naturale) e socialità (per costruire relazioni reciproche).

La fantascienza ha spesso esplorato l’idea di macchine indistinguibili dagli esseri umani, riflettendo al contempo sul nostro stesso concetto di umanità. Ma Suchman evidenzia un problema concreto: i robot, reali e immaginari, tendono a riprodurre stereotipi. La maggior parte ha pelle chiara, corporatura “in forma”, tratti di genere marcati. Le funzioni assegnate seguono ruoli tradizionali: robot maschili per i lavori di forza, femminili per assistenza e cura.

Esistono però alternative. I robot di Boston Dynamics si ispirano alla natura, non all’essere umano, per muoversi in modo più efficiente. Anche l’empatia non richiede un volto umano: bastano pochi elementi espressivi, come dimostrano i cartoni animati o il legame affettivo tra esseri umani e animali. Alcuni progetti robotici per bambini iniziano a esplorare forme nuove, aprendo la strada a una tecnologia più inclusiva e creativa.

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