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Alzheimer: fino a 4 anni per la diagnosi: : “Metà dei casi non viene riconosciuta”

Uno studio dello University College London mostra ritardi significativi nella diagnosi dell’Alzheimer: ecco cosa dicono i numeri

Alzheimer: fino a 4 anni per la diagnosi: : “Metà dei casi non viene riconosciuta”

Per arrivare a una diagnosi di Alzheimer possono servire fino a quattro anni. È questo il dato allarmante che emerge da uno studio condotto dallo University College London (UCL), appena pubblicato sull’International Journal of Geriatric Psychiatry. La ricerca, la prima revisione sistematica e meta-analisi globale sul tema, fotografa una realtà fatta di ritardi, ostacoli e mancate diagnosi, anche nei Paesi più sviluppati.

L’analisi ha preso in esame 13 studi precedenti svolti in Europa, Stati Uniti, Australia e Cina, per un totale di oltre 30.000 partecipanti. Gli scienziati hanno calcolato il tempo medio che intercorre tra l’esordio dei sintomi – riferiti da pazienti o familiari attraverso colloqui o documentazione clinica – e la diagnosi ufficiale di demenza. Il risultato? In media passano 3,5 anni, che salgono a 4,1 anni nei casi di demenza ad esordio precoce.

Una lentezza che pesa, perché una diagnosi tempestiva può fare la differenza: permette un accesso più rapido a terapie, supporto e strategie di gestione, e può allungare la fase in cui i sintomi restano lievi. Ma la realtà dice altro.

Secondo stime precedenti, solo il 50-65% dei casi viene diagnosticato nei Paesi ricchi, con percentuali ancora più basse altrove. Alcuni gruppi, in particolare i pazienti più giovani o con forme come la demenza frontotemporale, risultano ancora più penalizzati. I sintomi vengono spesso sottovalutati o confusi con l’invecchiamento fisiologico, mentre la paura, lo stigma e la scarsa consapevolezza frenano la richiesta d’aiuto.

E quando il malato si rivolge al sistema sanitario, le difficoltà non finiscono. Percorsi di cura poco chiari, accesso limitato agli specialisti e ambulatori della memoria sottodimensionati contribuiscono ad allungare ulteriormente i tempi.

“Dobbiamo agire su più fronti: formazione, informazione, investimenti nei servizi”, avverte Vasiliki Orgeta, autrice principale dello studio. Perché dietro ogni ritardo, c’è una persona che affronta la malattia da sola, e una famiglia che resta senza risposte.

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