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La crisi di Mirafiori
25 Febbraio 2024 - 07:00
I prossimi due anni saranno nerissimi per il settore automotive torinese. Molto più duri di quanto abbiamo visto finora «e di quanto si dica anche sui giornali». E tante aziende dell’indotto rischiano di non arrivare in fondo a questo lungo periodo, un tunnel oltre il quale si intravede sì una piccola luce, ma appunto la difficoltà è arrivarci... Ma il know how, l’esperienza, le risorse tecnologiche dell’indotto torinese sono troppo preziose per disperderle.
Dunque non è un caso che l’Algeria, da poco beneficiata di un enorme investimento da parte di Stellantis, voglia questo patrimonio di capacità e lavoro. Nei giorni scorsi l’ambasciatore Abdelkrim Touahria ha invitato l’indotto torinese al Forum dell’automotive che ci sarà in Algeria ad aprile. Ma le aziende, per la maggior parte piccole e medie imprese, potranno accettare l’offerta? Ed è davvero così allettante? Ne abbiamo parlato con Fabrizio Cellino, presidente dell’Api, le piccole e medie imprese, oltre duemila realtà di cui ben 800 sono attive nell’automotive. Un settore, quello piemontese, che vale 75 miliardi di export.
Presidente Cellino, partiamo dalla sua previsione: perché i prossimi due anni saranno «durissimi»?
«Perché i volumi produttivi sono in calo, perché nel paese non c’è un secondo “player”, un secondo grande produttore di automobili. E soprattutto perché Stellantis non ha annunciato nuovi modelli. Nonostante questo, io credo che possa esserci un po’ di ottimismo, di prospettive future, ma bisogna appunto superare questi due anni»
Le due Maserati in arrivo, in effetti, sono state annunciate e studiate anni fa, la 500e però è stata confermata. Perché parla di ottimismo?
«Perché quanto spiegato da Stellantis è una notizia incoraggiante, con la dimensione tecnica che rimane qui, con i centri stile Maserati e Alfa Romeo, i due hub per le batterie e l’economia circolare. Si tratta di una conferma dell’impegno. E queste sono parti importanti di futuro, non possiamo screditarle. Dobbiamo pensare in modo positivo».
E l’offerta dell’Algeria?
«Si tratta di un invito, a seguito degli aumenti di produzione e investimenti di Stellantis, per i nostri stakeholders e offrono molte opportunità per il nostro tessuto industriale. L’Algeria vuole creare un suo tessuto industriale attorno allo stabilimento Stellantis. Il confronto è aperto, al di là di una piattaforma di incentivi, non hanno ancora detto di cosa si tratterà. Anche la capacità di investire è ancora da chiarire»
La stessa Stellantis, a parte la Fiat 500, non ha chiarito del tutto i piani per lo stabilimento di Orano: si parla di 500X e Tipo, modelli che in Europa sono a fine vita.
«Sì, bisogna ancora vedere i progetti. Noi comunque, come Api, faremo da mediatori fra l’Algeria e i nostri iscritti eventualmente interessati».
Ma una piccola o media azienda torinese può permettersi di investire all’estero, di spostarsi o sdoppiarsi?
«E’ uno sforzo notevole e noi siamo qui per aiutare le imprese. Bisogna entrare nell’ottica che per crescere occorre puntare sui mercati locali. C’è la necessità di seguire i grossi committenti in loco».
Quindi, diverso dal concetto di delocalizzazione di un tempo?
«Sì. Non siamo più di fronte all’azienda che va all’estero per risparmiare sulla manodopera e poi importa il prodotto qui, parliamo di lavorare per sfruttare il mercato locale. Un percorso obbligato, ormai. Al di là di realtà di nicchia che potranno sopravvivere dove sono nate, le altre devono avvicinarsi ai distretti produttivi. In questo senso l’Algeria è un “big country” da osservare. E poi è più vicino all’Italia dell’India o della Cina».
E la situazione qui?
«Servono opportunità qui a Torino. Inutile fare polemiche, dobbiamo capire. Dobbiamo fare attrattività anche noi. In questo senso, Comune e Regione hanno un confronto costante e hanno collaborato con i nostri produttori. Ma il sistema Italia è più fragile e manca un po’ di committenza sulla manifattura, che a Torino rappresenta un polo di eccellenza. Sarebbe un peccato non mantenerlo. Se Stellantis chiudesse con i cinesi di Leampotor, e loro fossero in grado di produrre realmente quelle 150mila macchine di cui si parla, il futuro per noi sarebbe molto più roseo».
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