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L'allarme dei sindacati

"Poste privatizza. Così chiudono mille uffici". Ecco dove

Il piano del governo è incassare 3,8 miliardi, ma cosa succederà nei piccoli comuni?

Con la privatizzazione, a rischio 1.000 uffici postali. Ecco perché

Nelle scorse settimane il governo ha di fatto dato il via libera alla privatizzazione di Poste Italiane. O meglio: di una parte delle Poste. Perché, come ha detto il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, "non possiamo scendere sotto il 35%", ossia al di sotto di una quota di controllo. L'esecutivo, difatti, non ha ancora detto quale sarà la quota in vendita, ma si sa che l'obiettivo economico è ottenere un buon incasso dalle privatizzazioni: l'alienazione della sola quota del Mef, il ministero delle Finanze, dovrebbe fruttare 3,9 miliardi di euro. Dietro quella che sembra una buona notizia, e un'altrettanto buona strategia, si nasconde però un rischio, che riguarda i lavoratori. I sindacati, difatti, hanno lanciato l'allarme. Vediamo di cosa si tratta.

In una società sempre più connessa, l'ufficio postale ha perso gran parte della sua rilevanza. Eppure, rimane un faro nel mare tempestoso delle comunicazioni, una sicurezza per molti italiani che si avvalgono ancora dei servizi postali. Non solo per i servizi postali veri e propri, ma basta pensare alle pensioni o ai servizi finanziari e assicurativi che ormai ogni ufficio eroga. In molti paesi del Piemonte - la presenza delle Poste è tanto più importante quanto più si esce dalle città - in questi mesi sono in corso lavori di ristrutturazione delle sedi, allo scopo di realizzare uffici sempre più "multimediali". Lavori che comportano anche mesi di chiusura, tanto che in molte località i sindaci hanno organizzato servizi di navetta - in special modo per le persone anziani - fino al paese più vicino. Quindi, cosa succederebbe al nostro territorio se mille uffici postali chiudessero?

Esattamente: 1.000 uffici postali a bassa redditività potrebbero essere a rischio di chiusura, mettendo in pericolo non solo il sostentamento di oltre 3mila impiegati, ma anche la tenuta sociale di numerose comunità, specialmente nelle zone periferiche e montane della regione. Significa, dunque, gli uffici di quei paesi sotto il migliaio di abitanti, oppure nelle zone di montagna, territori già messi a dura prova dalla carenza di altri servizi, per esempio degli sportelli bancari, da quando gli istituti di credito hanno razionalizzato, per così dire, le loro presenze.

A dirlo è la rappresentanza sindacale dei lavoratori di Poste Italiane, guidata da Bruno Bartone (Cisl), Nunzia Mastrapasqua (Cgil) ed Evaristo Perrini (Uil), ricevuta questa mattina a Palazzo Lascaris, sede del Consiglio Regionale. La possibile cessione di una nuova tranche di azioni dell'azienda sul mercato, annunciata dal Governo e prevista per il prossimo mese di marzo, ha sollevato timori riguardo al futuro dell'azienda e dell'universalità del servizio postale.

Durante l'audizione, i sindacalisti hanno ribadito la necessità di una revisione del piano di privatizzazione, evidenziando il rischio di perdita del controllo pubblico su Poste Italiane e la conseguente minaccia per la continuità del servizio. Hanno sottolineato inoltre l'importanza di mantenere gli uffici postali nelle zone meno servite, per evitare spopolamento e garantire la vicinanza dei servizi ai cittadini, in particolare agli anziani.

Il presidente del Consiglio Regionale, Stefano Allasia, ha accolto le preoccupazioni dei sindacati, impegnandosi a portare la questione all'attenzione dell'intero Consiglio. L'obiettivo è formulare un ordine del giorno al Governo regionale per convocare l'azienda e valutare soluzioni concrete per garantire la continuità e la capillarità del servizio postale sul territorio piemontese.

Ma soprattutto occorrerà capire quanto il governo deciderà di alienare di Poste Italiane, che è una società per azioni con oltre un miliardo e 300 milioni di euro di capitale sociale ed è controllata al 35% da Cassa Depositi e Presiti, al 29,6% dal Mef come detto, e la restante parte da investitori istituzionali e libero mercato azionario, il cosiddetto retail (un 12% fluttuante, si può dire. Comprende anche piccoli investitori e risparmiatori).

Alienare la quota del Mef, dunque, non intaccherebbe la governance pubblica, mantenuta tramite Cassa Depositi e Prestiti, ma porterebbe di sicuro all'incasso di una quota significativa per quanto, osservano molti analisti, potrebbe esserci una netta discrepanza fra la realtà e quei 3,9 miliardi iscritti nel libro dei desideri.

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