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CARCERI

Le donne alle Vallette scrivono a Mattarella: "Vogliamo giustizia"

Il blocco femminile ospita 125 detenute. Tutte si sentono dimenticate: "Non c'è solo la Salis"

Le donne alle Vallette scrivono a Mattarella: "Vogliamo giustizia"

Quell’arco bianco decorato e così elegante quasi stona in mezzo a quei caseggiati bassi e fatiscenti. È il padiglione femminile. Già dall’entrata sembra diverso da tutto il resto del carcere. Si entra in biblioteca per incontrare le detenute. Stanno guardando un dvd tutte insieme. La prima immagine è quella di una detenuta transgender che sta accarezzando, con fare materno, un’altra detenuta, minuta, ma indubbiamente più che adulta. È Lisa. Non so cosa abbia fatto Lisa, ma è chiaro, per chiunque la veda, che la donna non ha gli strumenti cognitivi per stare in carcere. Di lei si occupano le sue compagne. Nonostante Lisa ogni tanto non le lasci dormire, quando la notte, in preda alle crisi, tiene tutto il padiglione sull’attenti. Alle Vallette ci sono 125 donne. Tra loro anche due persone molto note, Veronica Panarello, la mamma del piccolo Lorys Stival, condannata a 30 anni per l’omicidio del figlio. Ora studia per diventare un operatrice sociale. C’è anche “la mantide di Bruino”, Maria Teresa Crivellari.

Sta scontando l’ergastolo per aver ucciso la moglie del suo amante nel 2010. Mentre nei padiglioni maschili alcuni reati rendono un detenuto meno accettato dai compagni, qui le donne sono tutte insieme e non si giudicano. La biblioteca si riempie rapidamente e dentro quella stanza ci saranno almeno 40 detenute. C’è Letizia, 24enne completamente tatuata. Faceva la mistress e un suo cliente ha cercato di abusare di lei. «Per paura che lo denunciassi, come volevo fare, mi ha preceduta. Condannata per rapina tre anni fa. Esco a ottobre. Quando mi hanno arrestata non avevo un soldo, nemmeno per mangiare o comprare l’acqua». Letizia oggi beve pochissima acqua. Per settimane si attaccava al rubinetto di quella non potabile. «È come se fossi rimasta traumatizzata. Poco dopo il mio arresto è morto mio padre, poi il mio cane. Mio fratello si è ammalato e mia mamma sta impazzendo. Non so come farò quando sarò fuori.» C’è Natalia, arrestata a luglio per un reato del 2004. «Dov’è la giustizia in questo Paese?» e via così, un fiume di racconti dove non basterebbero cento pagine.

Ma una cosa la ripetono tutte, in coro. «Vogliamo giustizia. Sappian che facciamo sul serio. Il sistema andrebbe riformato da zero, questo modo di scontare la pena non serve». Una di loro mi porge un foglio e mi invita a tenerlo. Una lettera. Alcuni stralci sono stati pubblicati da media e giornali. In questa si annuncia uno sciopero della fame, a cui prenderanno parte praticamente tutte le detenute, comprese le malate oncologiche come Maria: «La responsabilità politica è diffusa. Questa emergenza carceri non è di oggi. Il nostro padiglione sicuramente è più pulito degli altri. ma comunque cade in pezzi. Anche da noi non mancano le blatte e i cuscini e i materassi si sono sbriciolati. In cella non abbiamo le sedie, mangiamo sedute sui letti.». Una protesta pacifica e lontana anni luce da quelle rivolte che riguardano i padiglioni maschili, da cui le donne si discostano. Unite, tutte dalla stessa parte, educate, ma sfrontate allo stesso tempo. Un femminismo diverso da quello che viene raccontato sui social, un’immagine che rende giustizia alla definizione del termine, più di qualsiasi enciclopedia. Lisa intanto calza delle scarpe con il mezzotacco di un numero molto più grande del suo piede. «Sono bella?», chiede alle altre. «Lisa non è seguita nemmeno da un avvocato. Nessuno in questi anni è venuto mai da lei. Parenti, amici, legali», sussurra una di loro. «Chiamami Vera» esordisce lei. «Andremo avanti a oltranza. Chi se la sente farà anche lo sciopero della sete. A cosa serve il decreto carceri? A nulla. Cosa deve succedere qua dentro ancora?». Vera chiede giustizia per tutte. Scendono altre donne. Non fanno caos, non urlano. Ma il rumore delle loro parole è assordante.


Il personale penitenziario ha preso più che sul serio la protesta imminente delle detenute. Dalla dirigenza rassicurano che le donne saranno seguite e assistite quotidianamente. «I giornali ne hanno parlato qualche giorno, nessuno è venuto a chiederci di più nonostante tutto ciò abbia avuto una risonanza mediatica importante». Quella lettera, in effetti, è arrivata anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lettera che ci è stata affidata dalla mano di chi l’ha scritta a nome di tutto il padiglione e che pubblichiamo integralmente, in esclusiva, sul sito del giornale.


«Indignati tutti per le condizioni della Salis? E per noi? Valiamo meno perché? A noi i politici non si interessano perchè siamo interdette al voto? Perchè il nostro nome sul giornale non è associato a un logo di un partito?». Forse, la legge sarà uguale per tutti. Il modo di scontare la pena, invece, non lo è.

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