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CARCERI

Ferrante Aporti: il ritratto drammatico del carcere minorile torinese

Intanto a Biella un detenuto ha dato fuoco a un materasso: tre agenti intossicati

Ferrante Aporti: il ritratto drammatico del carcere minorile torinese

Torino, Istituto Penale Minorile "Ferrante Aporti". Un nome che potrebbe evocare rieducazione e speranza, ma che oggi suona come sinonimo di degrado e abbandono. È il luogo che, tra l'1 e il 2 agosto, ha assistito a una rivolta notturna, l’ennesima, che ha lasciato dietro di sé devastazione, indagini, e il solito, noto, scenario di fallimento. Una struttura messa in ginocchio, 18 detenuti sotto accusa, di cui 15 minori, bambini che la società ha già condannato, non solo per i crimini che si dice abbiano commesso, ma per l’indifferenza che li avvolge. Oggi, settimane dopo quella notte, nulla è cambiato.

O meglio, qualcosa è cambiato: la struttura non è più quella. Le sue mura sono state violate non solo dalle mani dei detenuti, ma dall’incuria di chi dovrebbe proteggerle, curarle, renderle luoghi di recupero. I lavori di ripristino proseguono, ma l’istituto resta un monumento al fallimento di un sistema che non sa più nemmeno come salvare i suoi figli più giovani.

Questa mattina, una delegazione del Partito Radicale ha visitato il Ferrante Aporti, osservando con occhi critici ma disincantati ciò che ormai è evidente: le solite criticità, le solite storie di sovraffollamento, stanze inagibili, deficit di personale. I numeri parlano da soli. Oltre il 90% dei detenuti è di origine magrebina, ragazzi senza scolarizzazione, senza futuro, e forse, senza speranza. Come si può pensare che le carceri minorili, che non sono altro che repliche in miniatura di un sistema penitenziario allo sbando, possano offrire una risposta?

Gli esponenti radicali Giovanni Oteri e Silvja Manzi non si trattengono: “Le criticità sono le solite. Servono percorsi alternativi. Servono Comunità, non prigioni.” Comunità, dicono, che oggi scarseggiano. Forse perché non c’è volontà politica. Forse perché, alla fine, la soluzione più semplice resta quella di nascondere questi ragazzi dietro le sbarre, lontani dagli occhi, lontani dai cuori.

Ma poi, quanto lontano possiamo davvero portarli prima di doverci confrontare con le nostre mancanze? A Milano, dicono, c’è stata una luce, un’iniziativa che sembra quasi un’utopia in un panorama come questo: i giovani del carcere Beccaria hanno avuto la possibilità di lavorare per la comunità, di responsabilizzarsi. Un piccolo, timido passo verso la redenzione, forse. Ma Torino, oggi, è ancora immersa nel buio.

Carcere minorile Beccaria di Milano

E mentre si discute delle carceri minorili, una notizia accende un’altra miccia in un altro angolo d’Italia. A Biella, in una casa circondariale per adulti, un incendio, l’ennesimo atto di disperazione, si propaga tra i corridoi. Un detenuto ha dato fuoco a un materasso. Tre agenti intossicati. Raffaele Tuttolomondo, segretario del Sinappe, lancia un grido che non è più solo una denuncia, ma un’implorazione: “La situazione è insostenibile. Gli agenti sono allo stremo, costretti a subire quotidianamente insulti, aggressioni, e adesso anche incendi.”

Ma è davvero questo lo stato delle nostre carceri? Un campo di battaglia dove gli agenti, spesso giovani e inesperti, combattono una guerra che nessuno vuole riconoscere? Se lo chiedono tutti. Se lo chiedono i familiari, gli amici, e perfino chi di quel sistema non ne vuol più sapere. 

Oteri e Manzi, alla fine della loro visita, si rivolgono alla RAI, la televisione pubblica. Non è una richiesta, è una preghiera: “Vogliamo uno speciale carceri. Gli italiani devono conoscere questa realtà. Solo così la politica potrà finalmente agire.” Ma chi ascolta queste parole? Forse resteranno, come sempre, intrappolate tra le mura spesse dei penitenziari, come i ragazzi, i detenuti, e le storie che ci ostiniamo a non vedere. L’Italia delle carceri continua a morire lentamente, pezzo dopo pezzo. E noi, ancora una volta, assistiamo.

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