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L'intervista della settimana
10 Novembre 2024 - 09:00
Li chiamano “cacciatori di teste”, una definizione che riassume in tre parole un lavoro che può essere lungo e complicato. Ma è quello che fanno Lorenzo De Giuseppe, Simone Suppo e il resto della squadra di W Executive, società con sedi in Italia e all’estero. Che ora ha aperto anche a Torino e conta già una decina di addetti con il compito di trovare manager, dirigenti, quadri e impiegati.
Lorenzo De Giuseppe 47 anni, e Simone Suppo, 36, sono i fondatori della sede torinese di W Executive: è l’ultima “figlia” della società nata nel 2021 a Milano su iniziativa di Pietro Valdes, attuale Ceo dell’azienda. Nel giro di tre anni ha aperto nove sedi in Italia, allargandosi anche in Francia, Spagna, Svizzera e Regno Unito: così è passata da 8 a 430 dipendenti. Si occupa di ricerca di personale, con il marchio W Executive pensato per trovare dirigenti, manager e direttori finanziari con stipendio a partire da 90-100mila euro annui. Poi sono nati We Hunt, specializzata nella ricerca di impiegati e quadri fino ai 100mila euro, e W Advisory, che si occupa di consulenza all’interno delle aziende.
Come funziona il lavoro dei “cacciatori di teste”?
«A noi si rivolgono start up, piccole e medie imprese ma anche multinazionali: hanno tutte bisogno di persone competenti e presenti sul territorio, che siano a Torino o per la sede in Brasile o in Ungheria. E noi siamo camaleontici, anche nell’abito: vogliamo proporre talenti sia a Intesa San Paolo sia all’imprenditore del Cuneese che ci riceve con le mani sporche di grasso.
Com’è cambiata la ricerca di personale negli anni?
«Fino a poco tempo fa, facevamo una “caccia” diretta nelle aziende o con il porta a porta. E alla fine gli imprenditori sceglievano alla piemontese, preferendo il «brau fiol». Ora c’è la tecnologia: usiamo molto LinkedIn e altri software, senza prescindere da dati oggettivi come esperienze e competenze. Con l’Università Bocconi, per esempio, abbiamo sviluppato il “W leadership index”, un questionario con approccio scientifico che ci permette di riconoscere cinque caratteristiche della leadership della persona da selezionare. E lavoriamo con I3P, l’incubatore del Politecnico, organizzando incontri specifici di orientamento, inclusività o su come trattenere i “fuoriclasse”».
Quindi il fattore umano e le conoscenze c’entrano poco?
«Il bello del nostro lavoro è l’interazione umana, il rapporto con le persone che siano lavoratori o imprenditori: diamo a tutti loro una mano in un mondo sempre più aggressivo, in cui bisogna trovare un talento ma anche trattenerlo. Noi ci mettiamo il nostro network, l’esperienza e la conoscenza del mercato, cui abbiamo aggiunto questi valori tecnici per capire chi sia il candidato migliore in base alle necessità. Perché poi bisogna analizzare anche il contesto: non è detto che un “campione” sia sempre la scelta più giusta.
Cosa intendete?
«Noi siamo cacciatori ma anche consulenti d’azienda. Facciamo spesso gli avvocati del diavolo e ragioniamo su come aiutare le imprese a crescere: tutti vorremmo Cristiano Ronaldo in squadra ma può succedere che un’azienda non sia pronta o che il campione sia adatto in quel contesto».
Può succedere che la persona giusta sia fatta in casa?
«Sì, infatti offriamo spesso una consulenza in tema di organizzazione aziendale. In molti settori c’è il tema del passaggio generazionale, con i fondatori che devono passare la mano trovando dei sostituti o facendo crescere persone che all’interno».
Il mondo del lavoro, a Torino, sta cambiando tanto. Qual è la vostra opinione a riguardo?
«C’è bisogno di una evoluzione non ancorata al passato e al mondo automotive e metalmeccanico, che avremo sempre di meno. Siamo in un momento delicato e di trasformazione, le regole stanno cambiando spinte da una sorta di forza centrifuga. Ma resta il valore delle piccole e medie imprese e dell’export: siamo quarti al mondo e dobbiamo ricordarcelo. Per fortuna si sta espandendo il settore dell’aerospazio, che si è consolidato e può assorbire parte della crisi dell’auto. Ci sono segnali positivi nelle ricerche delle aziende ma si può fare di più grazie a investimenti istituzionali. Il salto sarà quando i talenti diranno “vogliamo andare a lavorare in Piemonte”: è il nostro sogno, su cui lavoriamo ogni giorno».
Intanto è cambiato anche il modo di intendere il lavoro: oltre allo stipendio, tanti cercano anche una buona qualità della vita.
«Oggi la piramide si è ribaltata: il capo è in cima ma deve capire che deve anche sostenere e valorizzare chi sta sotto di lui. Perché il tema della qualità del lavoro e della vita è fondamentale: spesso dobbiamo spiegare agli imprenditori che una ruota non gira senza perno ma neanche senza raggi».
E gli imprenditori capiscono?
«A Torino tutto ciò che è cambiamento incute timore. Quindi non è facile rompere certi schemi in un contesto sabaudo, meno ricettivo rispetto a Milano. Ma è un processo irreversibile, dobbiamo farlo capire agli imprenditori e farli diventare 2.0: bisogna mettere da parte la timbratrice e puntare su fiducia e obiettivi».
Cosa vi chiedono le aziende torinesi?
«Di recente c’è stata richiesta di manager 50-55enni con esperienza, che poi vengono accolti benissimo. è una soddisfazione anche perché ce ne sono tanti che, a causa di ristrutturazioni aziendali, sono alla ricerca di un nuovo posto. A noi fa piacere che l’esperienza paghi in un mondo che va veloce e ha bisogno di contaminazioni e investimenti su se stessi, in modo che i nuovi arrivati possano portare il loro bagaglio ma anche idee nuove. È un bel segnale del mercato».
Quindi i giovani devono preoccuparsi?
«No, ovviamente è molto richiesto qualunque profilo legato alla tecnologia e al mondo IT (dell’informatica, ndr). Ma non basta essere giovani e preparati, le aziende vogliono persone che non fuggano. I nuovi lavoratori sono più attenti a come vengono trattati e hanno tante offerte: dopo le difficoltà del Covid, pensano più dei “grandi” al proprio benessere. Però le imprese fanno investimenti su di loro».
Come si trattiene un ragazzo che vede maggiori opportunità lontano dal Piemonte e dall’Italia?
«Bisogna imparare a raccontare cosa si fa di buono in quell’azienda e ad ascoltare i lavoratori. Sul piatto, oltre a un alto reddito annuo lordo, bisogna mettere opzioni come welfare o lo smart working: è il concetto della leadership di servizio, con il dirigente che si mette a disposizione».
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