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IL CASO

Torino, suicidio in cella: ecco tutto ciò che non torna

Punto per punto, i coni d'ombra che ancora avvolgono il caso di Hanid Bodoui, impiccatosi alle Vallette dopo il ritorno dal Cpr

Torino, suicidio in cella: ecco tutto ciò che non torna

"Una morte che si poteva evitare". Rimbomba come un eco, dai corridoi dei tribunali ai commenti sotto gli articoli che raccontano la vicenda di Hanid Bodoui, il 42enne di origini marocchine trovato morto all’alba di lunedì 19 maggio 2025 all’interno della sua cella al carcere le Vallette di Torino. La trentunesima vittima di suicidio nelle carceri in questo 2025, la prima a Torino. Lui si è ucciso e le domande a cui ancora non c'è una risposta sono tante. Perché è stato portato in carcere considerando che aveva la direttissima il lunedì mattina? Quali rischi c'erano per cui non era possibile applicare una misura cautelare alternativa, come i domiciliari da sua sorella? È stato visitato dal personale sanitario quando è giunto alle "matricole" della Casa Circondariale? Ha parlato con uno psicologo che potesse accertare uno stato mentale e psicofisico idoneo alla carcerazione e che potesse escludere qualsiasi gesto di autolesionismo? Se no, perché nel dubbio l'hanno lasciato entrare in cella con i lacci delle scarpe?

La Procura di Torino ha aperto un fascicolo sulla morte di Bodoui: l'ipotesi di reato, al momento, è istigazione al suicidio, secondo quanto si apprende da fonti informate. Il pubblico ministero Paolo Scafi, titolare dell'inchiesta, ha disposto l'autopsia sul corpo del 42enne.

Un passo indietro. L'uomo era stato arrestato sabato all'ora di pranzo in corso Giulio Cesare: uno screzio con un negoziante, alla base di tutto, una sim comprata da Bodoui che non funzionava. Così il 42enne ha chiamato le forze dell'ordine. Alla fine, però, i poliziotti hanno arrestato lui per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Perché Hanid ha tirato un calcio alla vettura della polizia? Frustrato da quell'episodio di ingiustizia, lui si sentiva truffato dall'esercente, mentre gli uomini in divisa gli spiegavano che non potevano farci nulla, che se voleva, poteva recarsi in commissariato e querelare. Fatto sta che lui viene portato via e, da quanto sembra, passa la notte in una delle camere di sicurezza del commissariato. Il giorno dopo, in tarda serata, viene condotto alle Vallette.

Ma dalle prime ricostruzioni non emerge se e come l'uomo è stato visitato dal personale sanitario al suo arrivo. Il carrello del vitto è già passato, la cena in cella viene servita alle 18. È tardi, Hanid è solo e non ha nessuno con cui scambiare due parole. Poche ore dopo avrebbe dovuto presenziare alla sua udienza di convalida. E molto probabilmente sarebbe stato liberato. Hanid, nella sua cella al padiglione B, non ha retto: ha sfilato i lacci dalle sue scarpe, ne ha fatto un cappio, si è tolto la vita.

Cosa lo abbia spinto, non è chiaro. Quello che, invece, è limpido è il passato di Hanid, travagliato e doloroso. L'uomo ha sofferto di alcune dipendenze e, come tanti nella sua situazione, spinto dal bisogno della sostanza ha commesso alcuni piccoli reati che lo hanno portato a fare avanti e indietro dal penitenziario torinese. Stava scontando una condanna definitiva proprio tra le mura del carcere di Torino quando, a un certo punto, si è visto portare al Cpr pugliese di Brindisi. I suoi documenti, nel periodo in cui l'uomo si trovava in stato di detenzione, sono scaduti. Da Brindisi Hanid ha poi "fatto tappa" a Gjader, in Albania, un altro Cpr. Adesso era riuscito a tornare in Italia, aveva raggiunto sua sorella Zamira, in Barriera di Milano. Chi lo ha conosciuto lo definisce "un ragazzo tranquillo, per nulla aggressivo". Zamira era presente all'arresto del fratello: i video che raccontano quel momento drammatico l'hanno immortalata mentre cerca di aprire la portiera per parlare al congiunto. Poi la donna ha un malore e stramazza in terra.

"Alcune circostanze al momento non sono chiare nemmeno a me. Saranno necessarie le dovute istruttorie per la verifica. Sono fiducioso sull'operato che sta svolgendo la Procura", spiega l'avvocato Luca Motta, legale di fiducia del 42enne. La stessa notifica a Motta arriva nella notte tra sabato e domenica. Non prima. Con una pec. Sul caso si esprime anche la garante comunale delle persone private di libertà, Monica Gallo: "A 4 anni dalla morte di Moussa Balde, suicida nel Cpr di Torino, assistiamo a un caso con troppe analogie. Hanid aveva una storia difficile alle spalle, ma evidentemente della vita personale, al momento dell'arresto, non interessa a nessuno". E tante domande arrivano anche dalla Camera Legale Vittorio Chiusano che ha diffuso una nota di diverse pagine: perché è stato portato in carcere e non al domicilio o nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine, come previsto dalla normativa che evita l’ingresso in carcere tra l’arresto e la direttissima? È stata verificata la disponibilità del domicilio della sorella? Se sì, perché non è stata considerata? Se no, perché non è stato fatto questo accertamento, nonostante la sorella fosse presente al momento dell'arresto? Le camere di sicurezza delle forze dell'ordine erano disponibili? Se non lo erano, quali motivi concreti e documentabili hanno impedito l’utilizzo di queste strutture? Quali condizioni specifiche e urgenti hanno giustificato il trasferimento in carcere, e non altrove? Com’è stata effettuata la visita medica di ingresso in carcere? Come è possibile che non sia stato rilevato lo stato di prostrazione psicologica e di grave fragilità di Hanid? Perché Hanid è stato collocato in una cella singola del reparto “nuovi giunti”, senza misure di sorveglianza speciale, nonostante il suo recente vissuto? Quali automatismi o prassi a Torino portano ancora all’ingresso in carcere di persone fragili, anche solo per il tempo tra arresto e udienza? 

Anche il Gruppo Abele, che conosceva bene Bodoui, ha lasciato un lungo e toccante comunicato: “Hamid era un nostro amico. Era stato con noi, sotto il portico della sede di via Pacini, quando viveva per strada. E si era deciso a chiedere aiuto per uscire dalla dipendenza dal crack. Aveva una sorella che lo avrebbe accolto, ma si vergognava troppo della sua condizione. Venne da noi ogni lunedì mattina per mesi, per una colazione e per ritirare materiale sterile. Dopo lo sgombero del portico, abbiamo continuato a incontrarlo in strada, fino all’arresto dell’autunno scorso. Proprio dal carcere ci scrisse per dirci che voleva iniziare un percorso con il Serd. Eravamo felici di accompagnarlo”. Tutto sembrava pronto per una svolta. “Aveva preso appuntamenti con i medici, la sorella lo attendeva, e il nostro supporto era attivo”, continua l’associazione. Ma la burocrazia ha cambiato il destino. Hamid, senza documenti aggiornati, è stato trasferito in un Cpr in Albania. “Un mese o poco più di prigionia, che lui descriveva come insostenibile – raccontano gli operatori –. Una detenzione di dubbia legittimità, che ha annientato le sue difese emotive”. Rientrato a Torino, dopo quella che il Gruppo definisce “un’odissea assurda e inumana”, Hamid è stato nuovamente arrestato, forse in seguito a un litigio o a una truffa subita. “È stato lui stesso a chiamare la polizia, sperando in giustizia – spiegano –. Ma ha trovato un altro arresto, e davanti a sé solo il buio. Temeva di essere rimandato in CPR. Non ce l’ha fatta. Questa morte ce la sentiamo addosso come un fallimento collettivo. Avevamo costruito, con fatica, un filo di speranza per una persona disperata. Ma quel filo si è spezzato. Non ti dimenticheremo, Hamid”.


Le modalità dell'arresto e la difesa delle forze dell'ordine

Molte persone hanno commentato le modalità dell'arresto in strada di Bodoui. Il nostro giornale ha diffuso un video che riprende il momento in cui la polizia ha fermato l'uomo. Nel video si sentono le urla delle persone, si vedono gli agenti che cercano di ristabilire la calma, ma la tensione era molta. Sempre in quelle riprese si vede un agente in divisa cercare di calmare Bodoui, quasi "accarezzandogli" la testa, come se volesse rassicurarlo. L'uomo, alterato e fuori di sé, probabilmente a causa dello spavento, veniva trattato con molta attenzione da parte delle forze dell'ordine. Sua sorella Zamira è stramazzata a terra: ha avuto un malore vedendo il fratello dentro la vettura dei poliziotti.

Luca Pantanella, segretario provinciale del sindacato Fsp, ha poi inviato un testo in difesa dell’operato delle forze dell’ordine contro le critiche che ritiene strumentali e infondate. “Oggi possiamo contare su un corpo altamente professionale, composto da molti laureati, che scelgono questo mestiere per passione e per spirito di abnegazione nei confronti della patria e del prossimo. Nessun poliziotto esce di casa con l’idea di usare la forza, né tanto meno di avere uno scontro fisico. Sanno che è un mestiere difficile che comporta rischi, ma lo fanno per assicurare alla giustizia chi delinque e per difendere i più deboli", ha dichiarato Pantanella. "Molti politici e non, esprimono giudizi farneticanti su come un operatore debba intervenire senza aver mai fatto nemmeno una riunione di condominio in vita sua. Non sa nulla dei pericoli della strada, perché spesso vive in zone lussuose e tranquille, oppure parla perché conta su un elettorato che annovera delinquenti comuni, autonomi e anarchici che vedono nella polizia lo Stato e quindi come elemento da abbattere. Dire che il poliziotto è violento a prescindere è come dire che l’arbitro è cornuto. I poliziotti sono padri, mariti, oltre che cittadini. La Fsp Polizia di Stato ha fortemente voluto le body cam per raccontare semplicemente la verità e difenderci da racconti fantasiosi e strumentali di chi vuole colpire il governo colpendo noi”, ha aggiunto Pantanella. "Sfido qualsiasi lavoratore a rimanere calmo e impassibile, se sottoposto a sputi, insulti e lanci di pietre per ore senza reagire" ha concluso.

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