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intervista della settimana
28 Settembre 2025 - 09:07
Il Barone Ostu a uno dei suoi eventi vintage
Federico Ostuni, classe 1991, è conosciuto a Torino come Barone Ostu. Da 10 anni porta avanti la sua passione per il vintage e il fatto a mano, e le sue origini sono profondamente radicate nella città di Torino. Si inserisce nella "nuova generazione del Balon", che unisce l'amore per la qualità dei capi usati a riferimenti alla cultura pop. Da "millennial" come si deve, è sbarcato anche sui social: la sua pagina Tiktok conta 50mila followers, e i suoi jeans su "L'Odio" di Kassovitz hanno collezionato 100mila visualizzazioni e l'apprezzamento di una generazione intera.
Dal 2015 vende nei mercati, passando da collaborazioni con il Torino Calcio ed eventi affollatissimi. Abbiamo parlato con Federico Ostuni, 33 anni, del rapporto con la sua città, di social media, viralità, e del futuro delle nuove generazioni. Scopri i segreti del mercato tessile più in hype del momento con una delle sue colonne portanti Torinesi.
È sempre stato chiaro il tuo percorso di vita? Come ti è venuta l'idea di un banco di vestiti vintage?
«Allora, partiamo dicendo che io ho fatto la scuola da odontotecnico, e lì ho sviluppato la mia parte manuale. Mi ha dato modo di imparare a modificare oggetti, prima per piacere e poi iniziando a fare dei mercatini. All’inizio, dal 2012 al 2015, vendevo quadri disegnati da me, spesso per il Torino Calcio, persino collaborando con loro. Facevo upcycling, quando ancora non si usava il termine. Poi, nel 2016, ho aperto la prima bancarella al Balon vendendo magliette da calcio. Nel 2017, dopo aver fatto decluttering nel mio armadio, ho deciso di vendere vestiti, ed è allora che il progetto è nato ufficialmente. All'inizio non si trattava di vintage etico, ma l’usato era un modo per far pagare poco le cose belle».
I prezzi dei tuoi capi sono effettivamente molto bassi, come fai a mantenerli così accessibili riuscendo a sostenerti?
«In questo lavoro c'è una grande regola: si guadagna quando si compra, non quando si vende. Io penso di essere molto più bravo a comprare che a vendere. Se metti un cappotto di cashmere a 20 euro, chiunque può venderlo. Però, non tutti sono in grado di comprarlo per poterlo vendere a quel prezzo. Quindi, quello che faccio è un'attenta pianificazione. Adesso che è finita l'estate, sto continuando a comprare camicie hawaiane, e a luglio continuo a comprare montoni, sempre per poter abbattere i costi. Comprando tanto riesco a tenere basso il prezzo, ma per far sì che tutto questo funzioni i capi devono costare poco. È una cosa che si autoalimenta. Poi, lavoro molte ore, perciò la manodopera è particolarmente abbattuta a livello economico. A produrre i capi siamo soltanto io e alcune sarte che collaborano con me».
Pur avendo la possibilità di aumentare i prezzi, dato che la merce è di qualità e la domanda non manca, perché sei rimasto comunque su cifre “popolari”?
«La risposta in questo caso si divide in due parti. Innanzitutto per creare un po' di consapevolezza, far capire che tendenzialmente i prezzi sono alti per due motivi: o perché la qualità è eccellente, o perché i capi sono esposti in una maniera efficace. Nel mio caso la qualità è ottima, ma non presto troppa attenzione alla presentazione per scelta: voglio creare quella curiosità, quella ricerca tipica dell’esperienza “vintage”. Poi, essendo nato e cresciuto intorno al Balon, avendolo vissuto sempre, mi sono scontrato con quella che è la necessità. Anch'io di famiglia non ho mai avuto un portafoglio infinito».
Qual è il tuo rapporto con il Balon, e con la città di Torino?
«Ho cominciato a vendere al di fuori del Balon, ma è lì che ho iniziato a fare le cose seriamente. Ho conosciuto degli amici e dei “rivali”, e mi ci sono anche un po’ scontrato. Il rapporto con gli organizzatori è fantastico, ma all’interno ci sono sicuramente alcuni personaggi storici che vengono da un retaggio culturale totalmente diverso dal mio, e non amano il cambiamento. Magari per loro avere persone LGBT al banco significa che stia andando in malora. Io sono stato il cambiamento per loro 6-7 anni fa, quindi venivo visto come una minaccia. Però, e di questo si può essere certi, non lascerò mai il sabato al Balon. Tutto ciò che sta nascendo adesso non sarebbe nato senza Torino. È una città che mi dà tanto e a cui soprattutto cerco anche io di dare tanto, quindi abbiamo un buon rapporto».
Come ti è venuta l’idea dei pantaloni con la scena de “L’Odio”?
«Stavo guardando il film di Kassovitz e quando c'è stata la scena in cui Vincenzo Casselli imita Robert De Niro, la più iconica del film, mi ha colpito profondamente. In quel momento solo da un punto di vista estetico, perché mi sembrava una bella immagine. Da lì poi ho detto, “Ma cosa potrebbe rappresentare? Perché dovrei dare dei jeans alle persone con Vincenzo Casselli che imita De Niro?”. Allora ho provato a cercare il senso del film. Così mi sono imbattuto nel concetto di odiare perché si è quasi in un ghetto all'interno della propria città, in cui anche mentalmente non si riesce a uscire dalla condizione di vita in cui si nasce. Io sono di Barriera di Milano, anche se di una zona in cui fortunatamente sono sempre stato molto tranquillo (e per questo mi sento privilegiato), però a 50 metri c’è corso Giulio Cesare. Nella mia mentalità di ragazzino, con i miei compagni di classe, non c'erano troppe speranze. Era una situazione che ti spegneva i sogni, in cui la massima aspirazione era puntare ad avere un posto fisso. Per questo motivo ho scelto di ritrarre quella scena. Li ho postati una volta nelle storie, sono piaciuti, li hanno comprati un paio di persone. Poi li ho appesi al banco e tutti me li hanno chiesti. Ho deciso di fare un TikTok, ed è esploso. Secondo me, il 90% della viralità è data dal prezzo, perché acquistare un capo handmade a 20 euro non è possibile ovunque».
Cosa diresti ai giovani che vogliono intraprendere il tuo percorso?
«Fatelo. Più se ne parla e meglio è per la scena. Dobbiamo pensare che siamo solo il 20% in Italia ad acquistare usato, quindi bisogna conquistare tutto l'altro 80%. Sinceramente non credo alle “concorrenze”, sono abituato a lavorare in un luogo in cui siamo uno a fianco all'altro. Se ci sono cinquanta persone che vengono al mercato, potenzialmente ci sono cinquanta lavori diversi. Ognuno lo fa a modo suo, con la propria direzione artistica. Ben vengano gli eventi, facciamolo diventare un trend finché questo trend non diventa la norma».
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