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La sentenza
20 Novembre 2025 - 13:11
Quaranta anni di carcere, in cinque. Si chiude così, oggi, il primo grado del processo sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nel Torinese, l’indagine che ha messo al centro Francesco D’Onofrio, nome pesante nelle dinamiche della criminalità calabrese trapiantata al Nord. A scrivere la sentenza è stata la giudice Benedetta Mastri, al termine di un’udienza breve e dai contorni netti: i capi d’imputazione restano tutti in piedi. Undici anni e dieci mesi per D’Onofrio, ritenuto dagli investigatori il motore di una rete capace di allungare i tentacoli tra appalti, edilizia, trasporti e ristorazione. A seguire, le altre pene: otto anni, dieci mesi e venti giorni per l’ex sindacalista Domenico Ceravolo; sette anni e sei mesi per Claudio Russo; sei anni e dieci mesi per Rocco Costa; tre anni e sei mesi per Antonio Serratore.
Le parti civili
In attesa del giudizio civile che quantificherà i risarcimenti, gli imputati dovranno intanto versare 50 mila euro al Comune di Carmagnola e 10 mila al Comune di Torino. Una misura provvisoria, ma sufficiente a segnare il riconoscimento del danno istituzionale: i due municipi erano diventati, secondo le carte, terreno di espansione e condizionamento. Il fascicolo si era acceso nel settembre 2024 con l’arresto di D’Onofrio, che continua a respingere l’etichetta di boss. Una strategia già vista, quasi rituale, a dispetto degli atti che lo descrivono come “organizzatore di una rete ’ndranghetista” radicata nella provincia di Torino, con epicentro a Carmagnola. Un sistema che, secondo gli inquirenti, si reggeva anche grazie agli altri imputati, pedine e cerniere operative nei passaggi chiave. Le accuse, distribuite a vario titolo, parlano di associazione mafiosa, ricettazione, estorsione e usura. Reati diversi, un’unica trama: il controllo del territorio attraverso affari, pressioni, intimidazioni.
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