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Leggende del Piemonte

A Staffarda la leggenda del pesce gigante che salvò i monaci dalla fame

Nel chiostro dell’Abbazia di Santa Maria di Staffarda a Revello (CN) si conserva una costola lunga un metro e mezzo, tra mito e reperto storico che continua a incuriosire visitatori e studiosi

A Staffarda la leggenda del pesce gigante che salvò i monaci dalla fame

Nel pacifico chiostro dell’Abbazia di Santa Maria di Staffarda, nei pressi di Revello (CN), si conserva una reliquia che ha suscitato curiosità e leggende per secoli: la costola di un enorme animale lunga circa un metro e mezzo. Questo osso, che può essere fotografato dai visitatori, è al centro di una narrazione affascinante che mescola mito, fede e folklore locale.

Secondo la tradizione popolare, in un’epoca lontana i monaci cistercensi che vivevano nell’abbazia furono colpiti da una grave carestia. Disperati, pregarono intensamente per giorni, finché un mattino, lungo il corso di un torrente vicino alla struttura, apparve un pesce dalle dimensioni straordinarie, talmente grande da occupare quasi l’intero letto d’acqua.

Quel pesce leggendario, narrano i racconti, sazietà i monaci e gli abitanti della zona per oltre tre mesi, salvandoli dalla fame e dando così motivo di feste e ringraziamenti. In onore dell’evento, nella sagrestia dell’abbazia fu posta una lapide con l’epitaffio “piscis prodigiosus” (pesce prodigioso), poi coperta durante i successivi lavori di ristrutturazione.

Alcune varianti più fantasiose del racconto parlano addirittura di una creatura che aveva più le sembianze di un serpente o di un drago, piuttosto che di un pesce convenzionale, a suggerire la natura profondamente simbolica del mito.

Gli studi e alcune pubblicazioni storiche suggeriscono che l’osso esposto sia in realtà la costola di una balena di grandi dimensioni, ricurva e liscia, con una lunghezza di circa 1,50 metri e una larghezza di 15 centimetri.

Ma come può una costola di balena trovarsi in un’abbazia nell’entroterra piemontese? La spiegazione più probabile è che si tratti di un reperto geologico fossile o di un oggetto portato nell’abbazia per motivi simbolici o devozionali, come spesso accadeva nel Medioevo, quando reliquie naturali venivano associate a miracoli o eventi straordinari.

L’Abbazia di Santa Maria di Staffarda è, infatti, molto più di una semplice cornice per una leggenda popolare. Fondata dai monaci cistercensi tra il 1122 e il 1138 su terreni donati dal Marchese Manfredo I di Saluzzo, divenne un centro religioso e agricolo di primo piano nel Marchesato di Saluzzo.

Secondo la regola cistercense, i monaci lavoravano duramente per bonificare e coltivare le terre circostanti, facendo dell’abbazia un nodo fondamentale per l’economia locale.

Il chiostro, dove si trova l’osso del pesce, è parte integrante di un complesso architettonico romanico‑gotico che include la chiesa, il refettorio, la sala capitolare e la foresteria. I monaci, seguendo la regola di San Bernardo, privilegiavano la semplicità e l’austerità nell’arte e negli edifici, pur senza rinunciare a elementi di valore come il polittico ligneo del 1531

Nel corso dei secoli, l’abbazia ha subito eventi drammatici, come i danni subiti durante la Battaglia di Staffarda del 1690, quando le truppe francesi invasero e saccheggiarono il complesso, distruggendo archivi, biblioteca e parte del chiostro.

La storia del pesce gigante di Staffarda è un perfetto esempio di come mito e storia si intreccino nella tradizione locale: da un lato, un curioso reperto osseo che stimola interrogativi scientifici; dall’altro, un racconto popolare che riflette le paure e le speranze di comunità antiche alle prese con fame, fede e miracoli.

Per chi visita oggi l’abbazia, non è soltanto un pezzo di architettura medievale, ma anche il luogo di un racconto sorprendente, che continua ad affascinare turisti, studiosi e appassionati di leggende.

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