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L'INTERVISTA DELLA SETTIMANA

Il direttore della Faro si racconta: «Non è un lavoro semplice, ci vuole tanto cuore»

La vita all'interno dell'hospice, la ricerca e il rapporto con le famiglie dei malati

Sensibilità, empatia. In una sola parola: cuore. Per lavorare nell’ultimo avamposto tra la vita e la morte serve tanto cuore. Lo sa bene il direttore generale della Fondazione Faro, Luigi Stella, che si occupa di cure palliative e ci spiega – o forse sarebbe meglio dire ci insegna – a parlare di morte «in termini di vita». 

Direttore, quanto è difficile lavorare a così stretto contatto con il dolore delle persone?
«Cominciamo col dire che le cure palliative non si occupano solo del dolore dell’ammalato, ma di tutta la famiglia. Quando prendiamo in carico un paziente accogliamo anche chi gli sta intorno. È una parte di cui nessuna altra branca della medicina si occupa».
Com’è la vita all’interno di un hospice? Dobbiamo immaginare un tempo lento e – mi passi il termine – triste?
«Capisco perché lo possa pensare, ma non è assolutamente così. Quando sono arrivato alla Faro, tre anni fa, mi ha colpito vedere un reparto ospedaliero pieno di vita. Arrivavo da un mondo più arido, quello delle banche e cercavo una esperienza umana. Ho visto tanta attività: dalla musico terapia alla pet therapy. Il corridoio più grande del San Vito è tanto trafficato da ricordarmi una piazza in festa. I pazienti fanno di tutto e se c’è da concedergli un desiderio siamo sempre pronti».


Ad esempio? Avete esaudito qualche desiderio particolare nell’ultimo periodo?
«Abbiamo celebrato un matrimonio in hospice ed è stato molto bello. Spesso facciamo spaghettate di mezzanotte, pizzate o giri in moto. Siamo arrivati a organizzare un trasferimento in Ungheria di una paziente. La guerra era già scoppiata, non è stato semplice, ma abbiamo messo in moto una catena che ha permesso alla signora di andare a casa sua in Ungheria per un ultimo saluto».
Che ruolo hanno i volontari nelle attività della Faro?
«I volontari sono l’essenza stessa della Faro. Oggi la quasi totalità del consiglio di amministrazione è fatto da persone che, in passato, hanno svolto l’attività di volontario. Sono 230 circa in questo momento e si occupano di dare vita all’hospice. Ogni giovedì è una festa, ad esempio. Ci sono anche due momenti la settimana di beauty farm. I nostri volontari si occupano di tutte le attività: dal karaoke fino al trasporto dei farmaci a domicilio per chi ha bisogno. Sono l’ossatura della fondazione».
Ci sono poi figure specializzate come infermieri, Oss e medici. Sappiamo che la sanità pubblica fa fatica ad assumere, da voi qual è la situazione?
«Noi siamo in controtendenza. Siamo passati da 12 dipendenti (di cui solo tre figure sanitarie) nel 2020, a una struttura dirigenziale completa. Abbiamo anche internalizzato tutte le figure che servono per portare avanti l’assistenza ai pazienti. Mentre tutti i medici, fisioterapisti e psicologi sono rimasti in regime di libera professione. Dopo tre anni, siamo arrivati ad avere 95 dipendenti, che entro la fine dell’anno arriveranno a cento. Sugli infermieri, in particolare, abbiamo fatto una operazione di reclutamento importante, anche in virtù dell’aumento dei posti letto (oggi 48). Ci siamo presi anche il lusso di dire anche dei “no”»
Che cosa intende?
«Abbiamo fatto oltre 120 colloqui tra Oss e infermieri per assumerne alla fine solo 20 figure. Riteniamo che la qualità sia un qualcosa di imprescindibile. A costo di soffrire un po’ quando non troviamo le persone giuste. Serve motivazione».
Non è un lavoro come un altro. Servono delle attitudini caratteriali particolari per approcciarsi al mondo delle cure palliative?
«Serve tanta sensibilità e tanta empatia. Oltre alla competenza, ovviamente. Investiamo molto nella formazione dei neo assunti. Si parla di circa 50mila euro l’anno spesi per la formazione in aula e di affiancamento sul campo».


La letteratura medica sostiene che le cure palliative migliorano sensibilmente la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie. È così?
«Le cure palliative sono una cura vera e propria. Mirano a ridare dignità a questo tratto di vita. Il dottor Simone Veronese, nostro ricercatore, si occupa di studiare il modo per garantire il controllo dei sintomi al paziente per dare dignità e sollievo nell’ultimo tratto della vita. A questo proposito, in occasione del nostro quarantennale, a giugno avremo una serie di incontri e talk con la popolazione finalizzati al mese della ricerca. Faremo anche una raccolta fondi».
Quali altri appuntamenti avete in programma?
«Abbiamo avviato una bella collaborazione con il Circolo dei Lettori. Faremo un primo evento insieme il 31 maggio, poi parteciperemo a Torino Spiritualità a settembre. Ci saranno anche due grossi convegni, uno medico e uno dei volontari, tra settembre e ottobre. Chiuderemo le celebrazioni con un concerto del maestro Uto Ughi che si è reso disponibile per il 21 ottobre all’Auditorium Rai. Ancora, avremo uno spettacolo di cabaret con Gianluca Impastato il 5 ottobre. L’intendo è quello di farsi conoscere, avere nuovi potenziali volontari e donatori e portare avanti l’idea di parlare di morte in termini di vita. Fa parte della nostra mission culturale».
Se dovesse riassumere la vostra storia in una sola parola?
«”Abbiamo cura e abbiamo cuore”, recitava un nostro sloga. Cuore è la parola che racchiude meglio l’essenza della Faro e delle famiglie assistite».
Quante famiglie avete assistito lo scorso anno?
«Nel 2022 ne contiamo 1.130 a domicilio e 430 nelle nostre strutture. Più di 1.500 famiglie in totale. Quest’anno il numero crescerà perchè avremo dei posti letto in più».
Dottore Stella, come trovate le parole per rivolgervi a una persona che sa di dover morire?
«Una delle particolarità delle cure palliative è che sono un tipo di medicina “sartoriale”. Nel senso che la comunicazione delle cattive notizie, così come il piano assistenziale, è del tutto personalizzato. Non esiste un paziente o uno schema tipo. C’è chi vuole sapere tutto dal primo momento, chi vuole che sia informata prima la famiglia… »


Come viene affrontato il “dopo” ?
«Abbiamo una serie di progettualità curate con i nostri psicologi. “Faro Dopo” si occupa dell’elaborazione del lutto e quello che succede quando la persona ammalata non c’è più. Il progetto “Famiglie Fragili” invece accompagna le situazioni – sempre più attuali – che si verificano quando a mancare è il capo famiglia. In questo caso noi facciamo insieme a loro il primo tratto di strada, dopo la morte».
Chi si rivolge a voi?
«Nessuno si può rivolgere alla Faro come privato. Tutti quelli che assistiamo arrivano dal Sistema sanitario nazionale. L’autorizzazione può arrivare da qualsiasi Asl italiana. La famiglia comunque non paga assolutamente nulla, per nostra scelta. Noi partiamo quasi ogni anno con un disavanzo di circa due milioni di euro e poi chiudiamo in pareggio. Questo è merito del cuore grande delle famiglie che donano e dei lasciti testamentari».

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